Per il numero di cugini, la mia famiglia italiana non ha nulla da invidiare alle parentele senegalesi. Ne ho molti, tanto diversi l’uno dall’altro e ciascuno, a proprio modo, insostituibile. Uno di loro è il mio dispensatore di libri. Non poche volte, anche di consigli. Durante l’adolescenza mi ha regalato “Un albero cresce a Brooklyn” di Betty Smith. Il romanzo, ambientato a New York nei primi anni del ‘900, racconta le vicende della piccola Francie Nolan che, vivendo in una famiglia economicamente e socialmente disagiata, in giovane età affronta situazioni particolarmente complesse, talvolta spiacevoli, decisive nel consolidare poi la sua determinazione adulta. La protagonista, come tante persone provenienti da condizioni svantaggiate, crescendo riesce a reagire, a riscattarsi, diventando una donna invulnerabile come l’ailanto, l’albero robusto che gli abitanti del quartiere chiamano “del Paradiso” che, innalzatosi tra il cemento di Brooklyn, è la sola pianta rigogliosa straordinariamente in grado di germogliare.
Quando, durante il primo viaggio in Senegal, ho scattato queste fotografie a Malika ho pensato proprio all’albero di Francie Nolan e ai giovani che, con le peggiori premesse, riescono comunque a cavarsela, prefiggendosi traguardi che raggiungono, meritoriamente, da soli.
Credo siano tre gli elementi che concorrono a determinare le caratteristiche di ciascuno di noi: la provenienza familiare (l’educazione ricevuta e l’esperienza vissuta durante l’infanzia), le frequentazioni (in qualche modo condizionanti nell’avvenire) e le peculiarità personali (che dimostrano come, con i medesimi insegnamenti, fratelli cresciuti insieme siano diversi tra loro). Se almeno uno di questi fattori non è del tutto negativo un essere umano può, in qualche modo, salvarsi: una famiglia adottiva per un bambino abbandonato, un solido gruppo di amici per un ragazzo con un’infanzia difficile, la considerevole tenacia per la piccola Francie, protagonista del romanzo.
Quando ho conosciuto la storia dei bambini Talibè mi sono chiesta (e continuo a domandarmi) in che modo loro possano salvarsi. Abbandonati, giuridicamente non adottabili, relegati ai margini della società, senza opportunità di studio e, quindi, privi di possibilità di affrancamento. Anche il bambino più capace, dotato, talentuoso, nella costante condizione di abbandono che ho constatato – se potrà sopravvivere – difficilmente riuscirà anche ad emergere.
Qualche tempo fa ho scritto queste parole di speranza: “ci sono conclusioni insperate, realizzate con i presupposti peggiori. perché, in ogni caso, la vita è imprevedibile. le variabili sono infinite. e indeterminabili le loro combinazioni. così può capitare che un semino germogliato in un terra in cui non può restare possa essere accolto, portato dal vento, in un giardino lontano. che un fiore trascurato, se guarito con premurose cure, possa ancora ricominciare a sbocciare. che una pianta saldamente stabile nel terreno possa resistere strenuamente alla tempesta, senza mai farsi piegare. e che due alberi non siano mai così distanti da non potersi sostenere. purché trovino il modo di tendere l’uno verso l’altra le proprie radici, intrecciando per sempre i loro rami.”
La vita, poi, non è andata come avrei immaginato, ma proprio l’Africa mi ha ridato fiducia nell’avvenire e, per questa ragione, vorrei contribuire a restituire a questi cuccioli di strada la speranza nel futuro che i loro sorrisi hanno donato a me.