S e non c’è ancora una vera e propria sceneggiatura, sequenze che siano pensate e predisposte con cura per essere imbandite sulla tavola del narratore, la nuova e speciale mostra di Mimmo Paladino è però una storyboard che può andare in ogni direzione. Poi verrà un film. Un film che si sta scrivendo nel tempo. Anche questa è una tappa di scrittura. Per sapere o soltanto immaginare che storia sarà, se mai ci sarà una storia, lo spettatore di domani potrà cercare indizi tra i cartoni che, messi in fila su una sola grande parete, sembrano raccontare qualcosa. Oppure nascondere chissà che cosa, come certe partiture in cui i timbri, ossia i colori musicali, contano aldilà delle note, prima delle melodie. La grande scultura che campeggia nella nicchia frontale fa da spartiacque in un senso che è molto più che figurato. Quel bronzo è una vera e propria fontana. L’acqua che cade dal catino sulla testa della figura in bronzo è il velo che separa il ritmo sincopato delle illustrazioni affisse sul muro dal flusso delle immagini filmiche che invece scorrono sulla parete della seconda sala. La scultura che getta acqua è una forma di vita dalla quale si scorge un nuovo inizio, come una porta che semichiusa lascia forse intravedere le prime scene del film che verrà. La scultura-fontana col suo suono discreto di natura che è sempre lì perché non smette mai di muoversi introduce il ritmo circolare nel campo astratto di un’arte che invece sarebbe votata al fermo immagine del tempo immobile dell’artificio culturale. Questo speciale rapporto mai definitivo, mai compiuto, mai esatto, tra natura e cultura, tra colore e disegno o, per dirla ancora meglio, tra pittura e scultura, tra acqua e terra determina da sempre l’equilibrio fragile eppure mai debole, forte ma allo stesso tempo fluido del mondo poetico di paladino. Se film sarà – come lo fu già e con gran successo “Il Quijote” del 2006 – come ogni opera d’arte dell’artista sannita il suo linguaggio si formerà negli incroci più casuali, al confine tra molte cose che sarebbe impossibile prevedere prima che la macchina si metta a girare. Per dirla con Zizek, la definizione di un’opera d’arte oggi non è più una questione del come e del perché, ma probabilmente del dove. Ed è qui, nella definizione di uno spazio possibile, di un luogo che sia favorevole all’arte in quanto manifestazione fluttuante del pensiero, cioè di quell’altrove in cui nessun sapere basta a se stesso e tutto si mescola e si contamina, paladino comincia a fare cinema. Non si tratta di una storia da raccontare o di immagini belle e nuove da mettere in sequenza per aggiungere un po’ di valore sociale al lavoro dell’artista moderno, proiettandolo verso una platea più vasta, ma di definire il campo in cui la questione dell’arte può forse ritrovare il senso pubblico che le manca da tempo. Violare confini disciplinari, barriere temporali, ordini formali e stilistici, mescolare segni, colori, materie, immagini, suoni, luce, insomma la terra con l’acqua e con l’aria è l’antico modo di paladino di mettere al mondo l’arte. Autore e spettatore nello stesso tempo, da solo nello studio, dietro la macchina da presa, per strada, in una piazza, in un museo o in una galleria, nel buio di una sala, alla fine insieme con gli altri, pochi e molti, tutti compagni di viaggio, del lungo viaggio della vita.
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