Sono più fortunato di Ungaretti. Lui interiorizzò la primavera di Velia dalla pianura, incantandosi al tappeto giallo di un campo di rape in fiore e al decoro delle colline. Io me la sono goduta in tutte le stagioni ed in ogni direzione, ma soprattutto dallo spiazzo del Santuario di Catona: un terrazzo nella gloria del sole con panorama a 360 gradi.
Lui sognò recupero di templi e fori, terme e portici: era il 1932. Io ho passeggiato a passi lenti ad inseguire l’ombra di Parmenide nella città dissepolta fin lassù alla Porta Rosa, aperta al mare e alla vallata. Lui transitò fugace a cogliere emozioni a Pisciotta, sospesa tra gli ulivi ed il mare e a Palinuro che cantava e canta nelle grotte viola, miti di eroi e dei, storie di naufraghi e di pirati. Io mi sono arrampicato, spesso, su per i tornanti sconnessi delle strada a fare il pieno di memorie di un Cilento di lavori e sudori. E mi danzano alle porte del cuore e della mente fotogrammi di vita, mentre il treno con il sottofondo stridulo dei freni sosta nella stazione. Ascea è una balconata frizzante di iodio sugli uliveti che dolci dirupano sulle acque del mare greco della grande storia. Giù, la costa che s’incurva al Capo conobbe gli “otia” fecondi di creatività di retori e poeti: Cicerone a conquista di relax, Orazio e Virgilio a cura di gotta nelle terme della salute. Più in là l’Alento a foce larga, ricorda porti popolati di approdi e partenze ad animare traffici e commerci. Oggi sui pochi chilometri di costa esplode impunita la vergogna di villette a schiera e caseggiati da condominii per ferie: un sovraffollamento da fiera d’estate, una desertificazione lunare d’inverno. Per fortuna al di là del Capo la Torre del Telegrafo veglia ardita su sciabolate di scogli lavici ossificati; un paesaggio di rara ed incontaminata bellezza con il mare in gara di verde con le cupole geometriche degli ulivi secolari. Mi incupisco ed indigno alla vergogna del degrado così come mi esalto allo splendore della verginità innocente di un territorio, dove, per fortuna, le stupide ferite da speculazione da rapina sono compensate dai tanti squarci di rara bellezza in questa mia terra anfibia. Ed intanto mi ingoia il ventre della terra con il treno che accelera la corsa, rumoreggia e fischia. Pochi minuti e la fine del tunnel mi spalanca la visione di cielo e di mare nella gloria del sole. Sono a Pisciotta dove il Cilento sa di Grecia. Il sole trafigge di bagliori le vetrate del Palazzo Marchesale e gli uliveti si arruffano lievi alla brezza che spettina le campagne delle colline va a congiungersi e confondersi con il cobalto del mare nell’orizzonte sena confini. E mi risuonano nella mente e nel cuore i veri di Sandrino Pinto: “Tra Elea silenziosa/ e Palinuro discendi alla Marina/vecchia Pixuntum”. Me lo rivedo folle d’amore per il suo paese a rivendicare con orgogliosa forza il patrimonio del cenotafio di Palinuro, all’ombra degli ulivi a corona del mare di Caprioli. E rifaccio, a volo di memoria, il mio pellegrinaggio d’amore e cultura, nell’intrico del centro storico, ad esplorare portali e palazzi gentilizi, slarghi aperti ad abissi di mare e piazze/salotto a captare schegge di sole, chiese a veglia di vescovi santi e lapidi a ricordo di glottologi colti e di eroi generosi. E mi pare che, da un momento all’altro, Sandrino mi sbuchi davanti con piglio bersaglieresco e quel sorriso che sfumava nella smorfia amara dell’ironia. E se punto giù alle case che digradano alla Marina, me lo ritrovo nella memoria carica di affetto, in un vecchio frantoio/museo, intelligente vanto dei giovani e meno giovai della ProLoco, a rievocare tra pesi e misure, friscoli e press, una stupenda pagina di storia della civiltà contadina.
Palinuro dorme nel cenotafio di pietra tra gli ulivi sulla collina aperta ai venti e al mare sullo sfondo di quel tozzo braccio di terra, rischiarata, a sera, a intermittenza, dai fasci di luce del faro a richiamo di naviganti incauti. “Aeternumque locus Palinuri nomen habebit” e si rifrangono alla memoria i lontani anni della scuola, la lettura dell’Eneide e la commovente storia di un nocchiero inabissatosi nei gorghi e consacrato al mito in quel mare che gorgoglia misteri e leggende nelle grotte policrome. A rifletterci Virgilio è stato uno straordinario promoter turistico e Palinuro sarebbe la sede ideale per un “Premio di Letteratura di viaggio”, ma sullo sfortunato eroe virgiliano sono fiorite altre leggende di stampo popolare. Bellissima quella sulla ninfa Kamaraton (Cammarota), che rifiutò l’amore di Palinuro. Venere la punì trasformandola in bianca scogliera. E nelle notti di plenilunio il pianto del nocchiero cola giù dalla roccia. Si confonde con la risacca e va a baciare il letto di pietra della ninfa, regalandole un bianco e spumeggiante merletto.
Per l’abito da sposa di un matrimonio mai consumato.
Oh, i misteri ed il fascino della toponomastica legata al mito! Camerota è lì dietro il Capo, dove il mare dilava sciabole di scogli a corona di cale appartate. È una presenza amica, il mare, e gioca a nascondino con vicoli e supportici per abbacinarti, poi, nella esplosione della luce dallo spalto del porto con castello e chiesa a far da quinta. Pochi chilometri di arrampicata sulla collina e, all’ultima curva, il mare scompare. Lo scenario cambia con la vegetazione di montagna che veste forre e calanchi. Mi sono lasciato prendere dalla dolcezza di un viaggio a ritroso di memoria materializzandola a filo tenerezza. Camerota che non è mai toccata dalla ferrovia e che si presta ad un tiro di schioppo dietro il promontorio della Molpa, che mi sorride nel sole. Intanto il treno conquista rapidamente la breve vallata del Lambro, nastro azzurro a fecondare coltivi di ortaggi. Sullo sfondo l’Antilia ride di sole onorando il toponimo. Alle pendici i ricami di case e chiese dei paesi: Cuccaro, Futani e Montano.
Ma questa è ancora un’altra storia.
Il pezzo è tratto dal mio saggio “Viaggio verso il Cilento in … treno” – Plectica edizioni