Sono Stato a Velia-Ascea giovedì u.s. nell’azienda dell’amica prof.ssa Maria Rosaria Trama, presso la Tenuta Colline di Zenone, per una bella serata di cultura e poesia, carica di emozioni profonde; e, naturalmente, è risuonato spesso, come era logico e naturale, il nome del Grande filosofo Parmenide, fondatore della Scuola Eleatica. Mi sembra giusto esaltarne il ricordo con una riflessione a parte. Lo faccio recuperando una mia lettera postuma a Lui dedicata e pubblicata nel mio romanzo epistolare “TERRE D’AMORE: CILENTO E COSTA D’AMALFI” (Edizioni Delta3) con il quale vinsi, qualche anno fa, il Premio Nazionale Francesco De Sanctis. La lettera è datata, ma ancora per buona parte attualissima.
Caro Parmenide,
ho parlato di te. Lo faccio spesso e per amore e per civetteria. Ero relatore ad una tavola rotonda, a Bologna, dove un gruppo di esperti autorevoli discettavano di turismo nel Mezzogiorno d’Italia. Per antico vezzo di formazione classica l’ho buttata sulla cultura e mi è andata bene, a giudicare dai consensi della platea, numerosa e, a fiuto, qualificata. Però un economista, schiavo di cifre, tabelle ed indici Istat, mi ha interrotto con apparente bonarietà, ma sottile perfidia, apostrofandomi con un “intellettuale della Magna Grecia”. Poteva sembrare un elogio ed era, invece, una sberla assestata con calcolato tempismo e con la pesante ironia di un sorriso mefistofelico soddisfatto. Un rapido flashback ed ho rievocato noti precedenti di un Avvocato Influente in vena di delegittimazione e di tentativo di ridicolizzazione di un Politico “loico” o di più recenti facezie di sedicenti “Celti” con la fregola di mitizzare una Padania inesistente a scapito di un millenario e sempre vivo Mezzogiorno. Mi è scattata la molla dell’orgoglio e mi sono incamminato con speditezza e spavalderia per i sentieri della tua “Via della Verità”, in un viaggio tanto avventuroso quanto stimolante dalle regioni cupe della “Notte” alle radiose plaghe del “Giorno”: ed ho tessuto l’elogio, con convinta partecipazione, del tuo tentativo ardito e riuscito di rottura con la sapienza mitico letteraria per approdare al rigore della riflessione filosofica e critica della scienza. E nella passione della polemica c’è mancato poco che nella tua ben nota teoria dell’Essere, che non nasce e non perisce, che non fu e non sarà, perché è ora tutto insieme, non facessi entrare finanche la moderna scienza statistica, che nell’aridità delle cifre è esaltazione dell’Essere e della Verità, in contrapposizione del Non Essere e della Opinione Un po’ ardita come tesi, ma ha funzionato, a giudicare dagli applausi scrosciati fragorosi e prolungati. Eppure giocavo in trasferta e quasi in terra straniera, in una Bologna ricca, gioiosa e tollerante, ma già a ridosso dei venti minacciosi dell’Oltre Po leghista.
A cena una bella signora romagnola, sanguigna ed estroversa, una imprenditrice intraprendente, un po’ per celia un po’ per galanteria, mi ha sussurrato che in un uno sprazzo di foga del mio intervento le sono apparso come te “venerando e terribile” in quel tuo colloquio con Socrate ad Atene, sotto lo sguardo stupito ed ammirato dei filosofi della lobby greca e quello commosso e riverente del tuo discepolo/amante Zenone, che, giovane e bello come un dio, ti fu compagno di avventura culturale per legittimare” la supremazia della dialettica” nella città culla del pensiero e dell’arte. Quel giudizio mi ha inorgoglito, a parte l’impegnativo “venerando”, per il quale mi manca l’età, la barba e, naturalmente, la mole e l’importanza degli scritti. Però ho giocato lo stesso a recitare il ruolo di tuo erede culturale e, tra l’ammirazione generale, ti ho immaginato asserire orgoglioso: “Realtà è l’essere, uno immobile, apparenza fallace il divenire” là nell’agorà deserta in cima alla collina ventilata. E ci è parso a tutti di udire il tuo messaggio battere alle grotte, levigare gli scogli e trasmigrare all’argento degli ulivi nello stupore assorto della sera, alla conca d’Elea. Ed ho parlato di terme e di teatri, di filosofia, di letteratura, di medicina e dieta mediterranea in un sottile e calcolato gioco di transfert tra l’ieri e l’oggi. E mi sono improvvisato tour operator per amore della mia terra. E ti ho utilizzato come testimonial insuperabile di arte e di cultura, di storia e di tradizioni nobili. Ed ho tessuto l’elogio di quel gioiello d’arte e di cultura che è la “Porta Rosa” e di quel parco archeologico eternamente in fieri, dove tra l’acciottolato di strade levigate dal passo dei secoli e resti di templi e fori si aggira cupa e solenne la tua ombra con schiera di discepoli al seguito ed ho esposto con entusiastica partecipazione il progetto della Fondazione Alario per Elea-Velia con quel pezzo di Grecia classica trapiantato ad Elea e le intuizioni felici di un architetto geniale come Paolo Portoghesi: la multisala con la facciata maestosa da tempio greco, un gioiello di teatro che ripropone in piccolo quello di Atene, il portico peripatetico per i conversari dotti, l’eremitaggio oblò sul mare per il recupero del pensiero antico e quel monumento tra gli ulivi da cui tu, solenne e corrucciato, domini il tutto. Certo ho taciuto della edilizia da rapina che ha violentato costa, pianura e collina, di qualche campeggio-lager, di lunapark e baraccopoli a ridosso dell’area archeologica, della ferrovia che spacca in due la città antica, del museo di là da venire, della volgarità di qualche operatore turistico. È stato giocoforza tacere e stendere un velo di pietà su più di una verità intollerabile; ma l’ho fatto per difendere l’immagine della tua e della mia terra, illustre padre e maestro Parmenide, anche se tu mi hai insegnato di perseguire sempre la via della verità e non quella della opinione, di onorare “aleteia” e non “doxa”. Perdonami, maestro e padre, nume tutelare della mia terra. Ma anche tu difendesti con orgoglio la superiorità di Elea su Atene in quel tuo lontano viaggio in Grecia con il fedele discepolo Zenone. Ed in cuor tuo eri consapevole che, forse, così non era.
Con ammirazione e devozione immutata ed immutabile tuo
gIUSEPPE lIUCCIO