C’è una esperienza straordinaria del corpo che, sebbene appartenga alla sfera istintuale, finisce per implicare una “riflessione” vera e propria; questa esperienza avviene, come sostiene Merleau-Ponty allorquando la mano, nel toccare qualcosa, la trasforma in una sintesi irripetibile dell’opera d’arte. Questa riflessione presuppone una dimensione dell’opera che non è concettuale ma, piuttosto “il pensiero della mano appartiene all’essenza del dono, di una donazione che donerebbe, se possibile, senza nulla pretendere”. Questa idea di Heidegger si adatta perfettamente alla gestualità creativa di Raffaele Falcone, anche quando da artista/artigiano cela se stesso nella profondità dell’opera. Il recupero di una valenza apotropaica dell’oggetto/opera prescinde, allora, dal cedimento di confine che l’uomo del terzo millennio subisce nel passaggio ai campi aperti della condizione di cyborg rinnegando, nel proprio, personale processo creativo, la contaminazione fra l’umano ed il meccanismo elettronico.
I giganteschi corni che Raffaele Falcone realizza non sono finzioni cartografiche di una realtà sociale e corporea sono, piuttosto, l’estrema sintesi di un processo millenario che determina un luogo: quello della cultura antropologica mediterranea. Essi sono, in realtà, istinto primordiale e rituale che si trasforma in oggetto, sintesi rituale che presuppone l’integrità dell’oggetto naturale stesso. E’ il tentativo estremo di tornare ad abitare il corpo proprio nel momento in cui esso viene svuotato di senso sacrificato, com’è sull’altare della deriva che porta all’intelligenza artificiale. Da questo punto di vista le tele su cui sono dipinti gli alberi dorati che sostituiscono l’elemento della natura (le foglie) con la creazione rituale umana (i piccoli corni) ha proprio lo scopo di permettere all’osservatore di rientrare in se stesso, non più prigioniero dell’estasi artificiale del cyborg ma consapevole di una ricchezza storica, emozionale ed affettiva. Paradossalmente ciò che produce questa sintesi straordinaria deriva, prima ancora che dall’accadere artistico, da un lavoro che presuppone una gestualità millenaria invece di un alienante formalismo di un lavoro morto.
Ricondurre l’umano alle sue radici iconiche è, per Raffaele Falcone, un esorcismo vero e proprio verso le paure del terzo millennio; il corno, oggetto scaramantico per definizione della nostra cultura, rappresenta l’estremo tentativo dell’umano verso la filosofia della rarefazione, verso l’eccesso di realtà descritto da Baudrillard che implica, appunto, il Delitto Perfetto: la sparizione della realtà verso le nuove forme ibride della mutazione antropologica bioelettronica. E’ una assonanza con la tarda modernità del basso medioevo, quella che distrugge le sicurezza e popola i nostri sogni dei mostri postmodernisti. Non la tecnologia in sé, ma l’uso invasivo di essa in un cambiamento sconvolgente geneticamente ipercomplesso. E l’ibrido, il Frankeinstein del post duemila si riversa nei mondi dell’alterità in un confuso e sfuggente progetto di artificializzazione della natura. In questo l’operazione artistica, la sintesi formale ed oggettuale di Raffaele Falcone dà una risposta che, più che negazionista o luddista, riafferma, in qualche modo la centralità dell’umano; è la riscrizione di un paradigma antropologico che presuppone la figura centrale naturale al posto di quella inquietante ibrido-tecnologica. Un mondo in cui creatore e creatura si fondono per essere “sacrilega” sintesi dell’immagine del divino. Come sosteneva Antonio Caronia: “Il freak ha rovesciato l’orrore in fascinazione… è un sacro degradato che non rimanda ad alcuna unità trascendente, ma ad una sorta di unità distratta tra tutti gli utenti, mediata da misteriosi processi di feedback elettronico che avvengono nel segreto delle apparecchiature di registrazione e produzione degli studios”.
La morfologia della forma dell’opera è, per Raffaele Falcone, esattamente come deve essere; un oggetto simbolico, rituale, evidente che racchiude tutto il significato concettuale dell’opera. Essa non è pura e semplice esposizione dell’idea, è, piuttosto, metafora della differente percezione dell’umano. Attraverso la simbologia essa si pone come elemento di passaggio fra due condizioni dell’umano: quella del sapiens sapiens e quella del cyborg. Se fosse rappresentata usando la tecnologia elettronica del rendering non avrebbe, probabilmente, la stessa forza demarcativa. Eppure essa sembra essere derivata da una qualche rappresentazione elettronica tale è il suo sviluppo armonico. In realtà essa prescinde dall’uno e dall’altro proprio dove la sintesi formale rende l’opera oggetto on the border, sul confine delle diverse percezioni. Ciò che conta, in realtà, è la coincidenza fra la forma ed il pensiero, fra la funzione mitopoietica dell’opera e la sua straordinaria oggettualità. Poco importa che derivi da una arcana cultura popolare o sia un oggetto assoluto delle idee platoniche o sia, ancora, frutto di un software del pensiero. Essa esiste ed in quanto tale non è possibile che passi inosservata.
RAFFAELE FALCONE
L’IMMUTABILE FASCINAZIONE DEL SACRO di Massimo Sgroi