Lame di sole tagliano la fitta boscaglia ed accendono rifrangenze d’argento alla polla che zampilla e si fa rigagnolo traslucido e chiacchierino tra sassi bianchi e vegetazione di montagna.
Sono a 895 metri di altezza, sul Monte Le Corne, alle sorgenti dell’Alento, il fiume sacro della mia terra. Nella mattinata di giugno, carica di profumi e di sole, elfi e fate, gnomi e ninfe si rincorrono per appuntamento d’amore tra faggi, roverelle e castagni. Nel vallone che rotola a valle si frantuma l’eco dell’elegante distico del canonico Vairo: “mihi patria est, gelidis uberrima lynphis. Quam cingunt colles, subter devolvitur amnis”. E il fiume corre via, giù giù verso la valle e la pianura, ora ruvido ed impetuoso, ora lento e sonnolento, dilatando alveo e portata con il contributo di poveri affluenti: torrenti e fiumare, delle terre di Magliano e Monteforte, Cicerale, Prignano e Rutino, Omignano e Perito, ed arricchendosi, infine, con il Badolato ed il Palistro, portatori delle acqua di Novi e Ceraso, prima di sfociare placidamente nel tranquillo mare greco di Elea. Il tunnel verde dei castagneti ricama arabeschi di sole a gocce su brevi pianori, a margine di carrareccia sterrata, un tempo regno di “fagioli” pastosi da soddisfare palati fini di re e “regine”, donde, forse, il nome del cultivar del cereale, ed oggi meta di patiti di trekking a caccia di relax a pieni polmoni. È passeggiata umbratile a concerto di grilli e di cicale prima dell’ariosità accecante a gloria di sole. C’è una cifra di lettura, impalpabile ma vera, del Cilento in questa stagione; ed è la luce. Qui luce e sole hanno gusto tattile e carnalità di sapori. Il sole è carico di vita come un frutto: i bambini lo succhiano al rosa corallino e al viola perlaceo delle ciliegie, lo spaccano alla polpa succosa delle albicocche, lo mordono nelle pesche gialle, lo spiccano al taglio dei denti che si impiastricciano nella porosità delle pere, lo sbucciano a fuga di aromi al riso mielato dei fichi. Cattura e rifrange luce e sole Gorga assopita sul declivio in fuga d’amore verso le acque del fiume. E narrano di nobiltà vecchia e nuova i palazzi dei “signori”: professionisti di fama, accademici di valore, politici di livello nazionale con studi accorsati nella metropoli partenopea, ma con occhio acceso a nostalgia di radici per cogliere nei weekend o nelle ferie agostane “l’otium” fecondo nella calda complicità del paese. E una scheggia di napoletanità si materializza nella bella chiesa del ‘500 dedicata a San Gennaro. Stio, il capoluogo, si stende sul crinale di una insellatura in bella posizione panoramica sulla Valle dell’Alto Calore, da un lato, su quella dell’Alento, dall’altra. E, forse, per questo gli storici più accreditati fanno derivare il toponimo da “ostium”, una porta, appunto, spalancata, da una parte, verso il Cilento interno che scivola giù giù alle fiumare di Campora prima di inebriarsi alle vette del Cervati, salendo tra storia e storie della nobile Laurino e dell’appartata Piaggine, e, dall’altra, verso Piano della Rocca e le glorie della piana velina e pestana. Altri con motivazioni altrettanto valide ribattono che deriva da “aestivus” a sottolineare i pascoli freschi, anche in estate inoltrata, a scialo di mandrie da transumanza prima della calata alla pianura e al mare. Aestivus o otium che sia, la posizione strategica fece di Stio uno snodo importante per le comunicazioni, i traffici ed i commerci nel Cilento antico e moderno. Testimonianza della sua storia è nella bella parrocchiale a dominio di piazza con l’elegante struttura romanica del campanile, che veglia sul vecchio centro abitato, che si snoda tra slarghi e vicoli lindi a corredo di belle e prestigiose dimore gentilizie a rievocare negli stemmi ai portali di pietra nobiltà di censo e di casato, si tratti di Sanseverino, di Carafa o di Pasca. E nel silenzio rotto solo dai passi sull’acciottolato veleggia lo spirito di sacerdoti pii e colti, che consumarono anni di paziente ricerca a penetrare nell’anima più segreta della loro terra. (Che peccato quel prezioso manoscritto di don Pietro Barbato rimasto inedito!)
Stio recitò un ruolo di primo piano nello Stato di Magliano, un tempo fiorente, ed ebbe una fiera conosciuta ed apprezzata finanche all’estero, se, come testimoniano antichi documenti, fu frequentata da mercanti francesi, fiorentini ed amalfitani per l’acquisto di sete pregiate. E la brezza che penetra nel meriggio tra le fessure della porta un po’ sconnessa, con il suo carico di profumi di campagna, canta solitaria nella chiesetta della Croce di fasti di un passato glorioso. Bella pagina di storia quella delle “fiere” nel Cilento medioevale e moderno: campo di ricerca per giovani studiosi e materia di dibattito per politici ed amministratori che dalla memoria/evocazione del passato vogliano trarre spunti di operatività per il presente/futuro. La fiera fu aggregazione operosa e festosa di collettività, scambio fecondo di esperienze di culture e, naturalmente, smercio di prodotti con le stimmate dei saperi e dei sapori di secoli di sudata epopea contadina, come lodevolmente si sforzano di dimostrare i giovani alle prese, in agosto, con il recupero della cucina povera, in cui la fanno da protagonisti “cicci mmaretati” e “foglie fritte”.