I sole rifrange oro sui petti di colline a scialo di fresca fienagione. A sinistra Magliano minaccia volo dall’abisso del cocuzzolo.
A destra, distesa nella vallata umbratile, è Campora a guardia del Trenico e del Torno, che corrono chiacchierini ad ingrossare la portata del Calore. Il paesaggio assorto nel silenzio, rotto solo dall’eco dei campanacci di mandrie alla pastura brada, si carica di estasi e di preghiera a dare attendibilità all’etimo del paese (Campora=campus orationis), come sostengono glottologi avveduti.
Ed alla moviola della storia la chiesa di San Nicola (XVI sec.) riecheggia sonorità liturgiche nel fasto del rito italo/greco con monaci barbuti ad officiare nel cenobio di San Giorgio. E fu liturgia di religiosità di lavoro il sacrificio di carbonai a mezza costa del lussureggiante Monte Falascoso. E fu stupore il fuoco di fornace a sfarinare bianca calce a pietra dura. E fu estrosa manualità ad intrecciare giunchi e canne per canestri ad essiccare i prodotti d’estate e d’autunno a provvida provvista per l’inverno. E fu paziente lavoro d’accetta e raspa a trasformare tronchi di castagno in manici di zappe, vanghe, roncole, aratri e gioghi a dissodare maggesi con buoi compagni e amici di fatica. E fu festa di grano zampillante nella tramoggia ad azionare mulino a riso a spruzzi a velo di farina, promessa di croccante pane. E fu e resta processione di “canestri” stracolmi di pastosi frutti della terra e saporiti prodotti di cagliato ad animar e strade di campagna d’agosto, a conquista devozionale del Santuario della Neve. E nel silenzio assorto di campagna rintronano, a memoria della storia, le fucilate di Giuseppe Tardio, avvocato/brigante convertitosi ai Borbone, a giustiziare il frate cappuccino Giuseppe Feola reo soltanto di infiammare gli animi per gli ideali della nascente Italia. E mi figuro, indignato nel ricordo, la brutale scena nella minuscola piazza del paese con il sangue su saio e scapolare del monaco liberale ed il terrore di contadini e pastori ammutoliti. Bella pagina di storia risorgimentale, fecondo campo di ricerca per giovani studiosi ed entusiasmante percorso didattico per scuole del territorio se solo i politici di tutte le stazze promuovessero e finanziassero progetti di recupero dell’anima vera dei nostri paesi e la smettessero di inseguire pretenziosa progettualità quasi sempre annunziata mi realizzata.
E la vocazione alla fucileria è nel DNA degli abitanti del borgo, se ad aprile in una con l’incipiente primavera esplodono colpi a più riprese e da più mani a conquista pacifica, questa volta, di un trofeo tutto da gustare; un prosciutto di paziente e sapiente lavorazione. E questa come altre originali manifestazioni sono premessa oggi di turismo che esalta il passato nella cornice verde a filo d’acqua. Ed li Trenico ed il Torno, torrenti nudi nell’arsa ghiaia a calda estate, raccontano la povera epopea del mondo dei vinti dei campi e dei boschi con il carico di speranze, illusioni e delusioni, nell’alternarsi delle stagioni scandite sempre e comunque dalla fatica, gioia e dannazione insieme. E nel sottobosco, dove brilla di squame nuove la serpe in fuga rapida, ride a protezione di felci la fragolina dolce, luccica invitante la mora ad ingioiellare rovi, esplode a cupola il fungo carnoso nel regno affollato di cercatori a tempo di raccolta. L’accesso al paese è garantita da una rotabile all’altezza della Retara franosa nella gloria della luce a festa di colori, in questo periodo, su ginestre e cardi in fiore. La strada precipita a tornanti nella vallata nel concerto assordante di cicale ubriache di aromi allo scialo di siepi stente a fioritura piena, prima della morte della sera, a cupola di cerri e roverelle, di castagni e larici regala ombre amiche nel giugno afoso ed anticipa corpo di abitazioni. Campora sonnacchiosa nella valle lega ricordi di passati a sogni di futuro. All’imbrunire le luci della sera sono lucciole stanche a culla di un paese che attende paziente la realizzazione della “trancilentana” a raccordare Vallo della Lucania a Teggiano per recitare, come da etimo, il ruolo di passaggio. Il passato c’è tutto. Il futuro è di là da venire. Al poeta viaggiatore innamora della sua terra d’origine, il Cilento, non resta che immortalarne la bellezza serenatrice, che scatena emozioni che si fanno parola poetica: CAMPORA. E fu festa di grano zampillante/nella tramoggia ad azionar mulino/ e riso a spruzzi a volo di farina/promessa certa di croccante pane:/Ed è promessa oggi di turismo/ a vanto dei mestieri del passato/nella cornice verde a filo d’acqua (tratta da Giuseppe Liuccio, CILENTO: Poesia di paesi – Galzerano Editore).