Sette donne vestite di nero che attraversano in una silenziosa fila indiana una stanza da una porta appoggiata ad un muro ad un’altra sempre esterna al muro opposto; è come andare da un non luogo ad un altro non luogo, ovvero da una apertura immateriale ad un’altra sempre della stessa valenza. Raramente in un’opera d’arte, in una foto in questo caso, riesci a trovare una identità di una filosofia, di una concezione della vita che diventa assolutamente trasversale non soltanto nel Mediterraneo ma in tante altre parti del mondo. Donne silenziose, che, vivendo mediamente cinque anni più dei loro uomini aspettano di raggiungerli e, come i satelliti appartengono alla terra ma già contemporaneamente al cosmo, allo stesso modo queste donne vestite del tradizionale nero appartengono alla concretezza della vita ma già all’infinito della morte. Esseri che tendono ad una condizione immateriale, che, nel loro attraversare le esistenze altrui, finiscono per essere quasi invisibili agli sguardi; come per Sant’Agostino di Ippona la cui madre, Santa Monica, è figura discosta eppure il centro dell’esistenza e dell’accadere “C’era con noi mia madre, ai cui meriti spetta, come credo, omne quod vivo”. È lo straordinario atto di omaggio che uno di padri fondatori della chiesa cristiana rende alla propria genitrice e che diventa quasi assioma assoluto di tutti quei satellites che hanno attraversato per millenni la storia del mediterraneo.
Paradossalmente il progetto di Satellites è per Miltos Manetas l’elemento di cesura fra un lavoro concettuale precedente e quello che guarda ai mondi elettronici ed alla compresenza fra il materiale e l’immateriale. Il progetto che è del 1993, infatti, si trova esattamente a cavallo fra le due forme dell’umano: il sapiens sapiens ed il nascente cyborg laddove i media landscape della rete cominciano a sostituire i concreti paesaggi della natura. Il Satellite è il veicolo attraverso il quale si inizia a produrre in arte l’idea del post human pur essendo una figura identificativa di una cultura millenaria. C’è un altro passaggio nelle Confessioni che proprio Manetas identifica come uno degli elementi costitutivi di questo lavoro ed è quando lui e la madre sono affacciati al davanzale di una finestra ad Ostia parlando di cose del passato.
Santa Monica si rivolge al figlio chiedendogli cosa stesse ancora a fare lì. E, poco dopo, ribadisce: “Che sto a fare qui?” Queste due frasi sono state per l’artista greco il collegamento fra satellites e la madre di Agostino; a differenza dei vecchi maschi le vecchie donne veloci sono dei meccanismi che hanno ricevuto un dato, una informazione chi gli dà la possibilità di andare via. In realtà girano ancora per il mondo per trasmettere, per trasferire agli altri questa informazione e l’unico modo che hanno per compiere questo transfert si trova proprio nella forma ricurva dei loro corpi piegati dalla vecchiaia. È l’attraversamento della vita altrui, quella contaminazione fra il reale e le forme del virtuale che determina quella vertigine dello spiazzamento che ci attraversa, ormai, continuamente. È quel dato che pone l’urgenza della domanda, quella che, se abbiamo il coraggio di guardare dentro di noi ci dice: che sto a fare qui? Quando il Satellite curvo ci attraversa la vita coinvolge ognuno di noi come attore della scena in una narrazione ambientale che trasforma continuamente il senso dell’esistenza.
Il Satellite è, allora, il detonatore di un accadere che, prima ancora che artistico, è filosofico ed esistenziale. È il dialogo silenzioso con una struttura formale e stilizzata di un corpo che proprio nella sua distanza con l’osservatore realizza il compimento dell’opera stessa. Come piume di uccello inserite nei buchi del muro che non ripeteranno mai la stessa, entropica forma esse vivono sulla linea di confine fra l’interno e l’esterno del corpo perse nel loro microcosmo; con l’urgenza dell’andare costruiscono architetture di universi. Esse sembrano rispondere ai principi matematici dei due teoremi di Incompletezza di Godel: i Satelliti ti mostrano la verità nel momento esatto in cui ti svelano l’impossibilità di dimostrarla; al contrario dei computer, che da quel momento in poi Manetas comincerà ad usare nell’arte, noi riusciamo a percepire l’essenza ultima di questa verità pur essendo consapevoli della sua ineffabilità. E, come per il principio di Indeterminazione di Heisenberg quanto più riesci ad osservare la loro posizione, tanto più ti sfugge la loro velocità e direzione poiché essi/e vanno per il puro scopo di andare, perché non possono fare altro, perché, al contrario delle macchine (per quanto intelligenti noi possiamo renderle) il vero scopo dell’esistenza è quello dell’artificio, della passione, dell’ambivalenza dei gesti, dell’ellissi del linguaggio, della maschera che copre il volto. I Satellites di Miltos Manetas, allora, si collocano esattamente alla fine dell’antropologia, laddove la deriva ultima dell’inconscio umano viene trasferita nella sofisticazione dell’indicibile della macchina elettronica e del suo software autoreplicante: la rete. Ipertrofizzando il fenomeno del pensiero ci siamo persi nell’estasi artificiale della commutazione dell’identità.
Massimo Sgroi