Non erano ancora gli anni settanta. Ero una bambina e avevo una rinite cronica, una tortura, perché il naso diventava una fontana perpetua e non bastavano due fazzoletti nella tasca del grembiule, che si inumidiva con un certo imbarazzo della mano e della faccia, soprattutto se la soffiata era stata rumorosa, una strobazzata.
Nel paese c’era solo il medico generico, bravissimo, su tutto: la stanza d’attesa davanti alla porta di legno dello studio era piena di donne che muovevano uncinetti, aspettando di fare ricette, o farsi la siringa o perfino tirarsi un dente. Perché allora anche questo faceva il medico condotto. Il mio, il nostro, era un eroe, sempre presente ad ogni bisogno. Nel mio caso, a giorni stabiliti, mi faceva sedere su una poltrona di pelle marrone, rompeva due fialette tenendole verso la lampadina, le versava nell’imbuto di un apparecchio fumigante, e mi faceva stare lì per i dieci minuti dell’operazione. Un vapore amaro mi riempiva le narici, gli occhi e le sopracciglia. Ancora la sento, quella puzza di zolfo e di menta.
Ma la malattia non passava, richiedeva uno specialista. Per i miei una scocciatura, perdere giornate intere per andare a Salerno. Per me era una gita in città che valeva bene la levataccia alle cinque, la puzza di gasolio delle macchine da noleggio, le due ore e più di di viaggio.
Mi facevo mettere il vestitino nuovo, cucito da una sarta giovane che abitava alla curva della fontana. Com’è bello, disse infatti una signora che sedeva come noi sui panchetti di formica bianca, lunghi e stretti, davanti alla porta con la targhetta Otorinolaringojatra.
E non mi perdevo niente di quell’ambulatorio all’angolo del lungomare, era il primo quadro della città, dove la sanità pubblica era un grande, efficiente concentrato di medici pagati dalla Mutua … questo è l’oculista…questo è l’ortopedico… Mi piaceva un’infermiera, anche lei in camice bianco, con i capelli corti e neri sparati in aria, che mi sembravano il massimo della moda, a fronte della mia chioma provinciale folta e riccia. Da grande, pensavo, avrei voluto i capelli come quelli.
Ho un buco di memoria, per fortuna, circa le frequentazioni mediche, per molti anni a seguire da allora, fino a quando adulta ero io a dover accompagnare i miei genitori, dal paese all’ASL di Roccadaspide, per le visite a turno di cardiologi, reumatologi, e infine geriatri, fisiatri. Era diventato più difficile, negli ultimi anni, bisognava cacciare prima la sedia a rotelle dal portabagagli, farla scattare col piede, accostarla allo sportello e trasbordarli. La sala d’attesa era grande, e divisa a settori. La fila per il tiket era enorme, ma poi ci si sedeva alle sedie di plastica blu e si aspettava, ripassando le cose da chiedere e quella da dire.
Sedevano facce di uomini e donne non più giovani, dei vari paesi del Cilento, facce di fatica e di educazione. Guardavo sempre le scarpe, senza risalire con gli occhi, per farmi idea della persona. Fogge non sempre moderne, a volte con qualche traccia di terra alle suole, ma lucide di cromatina. Foulards leggeri ai colli delle donne, regali sicuri delle figlie, non più i fazzoletti antichi annodati sotto il mento.
Medici e infermieri con le Crocs bianche o colorate passavano svelte e imperiose.
Esco dall’Asl di via Vernieri, niente ansie, un semplice tiket per una visita di routine, e infatti ho scherzato con la signora dietro al vetro, mentre pagavo, e lei ha sorriso prendendo gli spiccioli.
Posso sorridere perché questo, credo, sia il pezzo migliore della mia sanità, visto che sono ancora in salute, e se fosse necessario, se quello sportello si chiudesse tra qualche anno, ho dei risparmi per eventuali guai. Ho toccato ferro lo stesso, eh! mentre nel corridoio controllavo se avessi preso tutto, mi richiudevo il giubbino Colmar e aprivo l’ombrello.
Il mondo va avanti, forse…
Fuori un signore neanche troppo malmesso mi chiede un euro per un caffè.
Più giù, davanti alla chiesa, un altro mi avvicina il bicchiere di plastica.