Ho intervistato Fausto Di Lorenzo, documentarista, regista e montatore cilentano. Attualmente è titolare di uno studio di produzione cinematografica “Digitalfilm” a Stio Cilento.
- Fausto, come hai iniziato ad occuparti di documentari?
Quando ho iniziato sul finire degli anni ’80 e inizio anni ’90, c’era, tra i più attenti, la volontà di far parlare chi non aveva voce, nonostante la televisione produceva format abbastanza monòtoni. L’idea del documentario nasce per raccontare, appunto, di persone che stavano ai margini, che avevano meno possibilità di esprimersi, oppure, con l’intento di mostrare dei mondi che personalmente conoscevo meglio, quindi raccontare quello che mi stava intorno. Poi negli anni questa cosa è finita ed in televisione, oggi, vanno a parlare tutti…
- In effetti c’è fin troppo realismo…
Hai usato il termine giusto! Al tempo esisteva la possibilità di ritagliarsi un concreto spazio di libertà. Avere a disposizione questo mezzo comunicativo, mi permetteva di raccontare quello che ritenevo valesse la pena raccontare. Parliamo di documentari immersi quasi integralmente nella natura, ne ricordo uno che mi commissionò la Comunità Montana del Calore Salernitano all’incirca 10 anni fa.
- Lo ricordo, il suo titolo “Se vivi qui… un motivo c’è”… molto bello! Cosa ti ha lasciato quell’esperienza? E nel particolare, so che ne hai realizzati tanti altri, dall’entroterra cilentana, alla costiera amalfitana, come si sviluppa un documentario?
“Se vivi qui… un motivo c’è” è stato uno dei documentari premiati al Festival del Cinema Internazionale di Salerno. In quel mese di luglio, ricordo di aver passato molto tempo sul Monte Cervati e con la troupe, era solito aspettare il tramonto mentre la temperatura scendeva quasi a zero gradi e ahinoi, non essendo preparati, ci mettevamo a ballare per riscaldarci. Devo dire però che in questi frangenti, lo scenario era meraviglioso, unico al mondo! Il documentario solitamente si sviluppa dirigendosi nei luoghi stabiliti, chiediamo cosa poter vedere e fare, rispettando e prendendo notizie direttamente dalle persone del posto. Si attraversa quindi, una fase di ricerca che va vissuta come rielaborazione dell’idea di partenza in cui non è presente solo una rassegna documentale, ma anche, e forse soprattutto, sopralluoghi e verifica della presenza dei personaggi nonché, della disponibilità degli stessi per girare video e interviste quando previste. In base ad una serie di esperienze formative, posso finalmente riconoscere cosa significa sradicarmi e radicarmi in un luogo, questo – secondo me – è molto importante, perché richiede il contributo della soggettività, una specie di training che devi mettere in gioco nel momento in cui ti rechi in un posto per lavorare, acquisendo le riprese per poi successivamente addentrarsi al passaggio successivo, il montaggio; operazione con la quale bisogna rendere chiara la narrazione dei luoghi e delle persone che hai incontrato. Oggi il modo di produrre documentari è cambiato, si va a caccia sia dei luoghi che delle persone con le quali raccogli non solo le esperienze, ma anche il senso della “presenza” del tessuto sociale dei borghi. Questa è una delle chiavi forti dei documentari moderni. Pertanto, si vedono sempre più lavori nei quali, l’utilizzo della voce narrante (fuori campo) è quasi del tutto sparita se non per qualche piccolo “intervallato”; Nei cliché delle produzioni esecutive è una cosa che nessuno più accetta, si preferisce focalizzare tutto sui personaggi, sui soggetti.
- Hai fatto questo lavoro “di base” per diversi anni, come è avvenuto il passaggio alla regia cinematografica?
Avevo voglia, come tutti, di fare un’esperienza nuova. A onor del vero, ho sempre pensato che raccontare di personaggi reali, farlo in un certo modo, fosse già cinema. Mentre li intervistavo, potevo inquadrarli e nel montaggio potevo mostrarli in modo differente, al punto di farli diventare dei veri e propri “soggetti” nelle mie mani e tuttavia, prossimi alla finzione. Com’è anche bene esplicitare che non sempre la realtà, si riesce ad illustrare dal suo lato più chiaro. Ed è qui che gli strumenti del mestiere ci offrono l’opzione di poter inventare, spingendosi un po’ oltre al dettaglio che sovente può sfuggire. Tant’è che ormai sono consapevole di non poter rappresentare sempre tutto quello che vedi e di conseguenza, non sempre il cinema è all’altezza.
- Superato lo scoglio del primo film, da un punto di vista creativo – produttivo, occuparsi di cinema è più difficile o più semplice?
Diventa più difficile… anche se per me non è stato esattamente così, anzi, fino ad oggi ho la fortuna di essere io a decidere come voglio fare i miei film in termini estetici e produttivi. Come so bene che – guardando anche gli altri – potrebbe essere più difficile, il tutto dipende dal tipo di attestazione che hai ricevuto, come te la sei guadagnata, in che maniera sei arrivato lì. Il modo in cui cominci a fare cinema è fondamentale, è li che vai a stampare la tua etichetta stilistica e a proiettarla in prospettiva. Le uniche e vere difficoltà ce l’hai solo con te stesso, quando cominci a intuire la responsabilità del ruolo del regista, quando inizi a chiederti in che direzione andare, come vuoi sviluppare un’idea. Pertanto, dopo aver girato tre film, mi domando ancora cosa voglia dire realmente fare un film.
- Secondo te quali sono, da punto di vista pratico, le competenze necessarie per un regista, che cosa deve saper fare?
Molte cose. Il regista si cura del lavoro di tutti. Lo esprimeva benissimo François Truffaut con “Effetto Notte” che passava in mezzo al set e mentre gli veniva chiesto qualcosa diceva: “il lavoro del regista è quello di scegliere”. Devi prenderti la responsabilità di scegliere ed essere consapevole che stai facendo il tuo lavoro. Devi essere attento ad ogni piccolo dettaglio, dai costumi, al trucco, alle postazioni, ai movimenti, perché lo spettatore vedrà e ascolterà il film e tutto ciò che riguarda il vedere e il sentire sarà filtrato dal suo coinvolgimento emozionale, diventerà qualcosa che gli riguarda.
- Invece con il direttore della fotografia che tipo di rapporto si instaura? Sulla scelta del taglio delle inquadrature, dei movimenti della macchina da presa…
È forse il rapporto più difficile di tutti. Generalmente cerco di dire quello che voglio e cerco di verificare se ho ragione, se funziona meglio, ma sto anche ad ascoltare con attenzione quello che mi viene proposto. Ho le mie piccole manie su come inquadrare le persone, sulla distanza della macchina da presa, sulla grandezza e sugli obiettivi. Non sono un grande esperto fotografico, né di messa in scena, però cerco di inquadrare le persone nel modo che mi piace e soprattutto cerco sempre il miglior compromesso con tutti e ovviamente, con il direttore della fotografia. Delle volte ha ragione lui, altre volte io.
- Che rapporto hai con il montaggio?
È un momento fondamentale e tuttavia anche quello che ti rende più nervoso, perché non puoi tornare indietro mentre scopri eventuali errori o cose che avresti potuto fare diversamente.
- Non credi perciò al mito di salvare il film al montaggio…
Credo sia una cosa senza senso… non avrai mai niente di più di quello che hai girato, quello è il tuo film. Piccolo, grande, bello, o brutto. Il montaggio è il momento in cui devi cercare di dare un senso a tutto. Può aiutare la narrazione sicuramente, può recuperare qualche pausa, qualche silenzio, oppure, al contrario, può tagliare per velocizzare, per avere più ritmo. È un momento fondamentale, ma non credo possa salvare il film. A volte, mi piacerebbe avere qualche risorsa economica in più per sopperire al capriccio di rigirare qualcosa che non mi piace, ripristinare il set e quant’altro e non te lo nascondo, c’è sempre qualcosa che viene scelta abbastanza velocemente. I film hanno un costo e non ti puoi permettere di concentrarti in tempi lunghi per grandi riflessioni, devi scegliere e decidere sempre molto in fretta.