Ascoltare l’artista Roberto Bellucci è un po’ come affacciarsi dal promontorio e osservare il mare nei suoi cambiamenti. In una bellissima e lunga telefonata, si racconta “illustrando” ad Unico, gli intensi passaggi della sua arte pittorica e del suo percorso di vita. Iniziamo subito a sciogliere il ghiaccio dandoci del tu e già dopo alcune battute sulla situazione culturale e sociale in Italia, capisco di conversare con una persona “immaterialmente” ricca, lucida e consapevole. Come altrettanto ricche sono le sue esperienze, caratterizzate dall’esercizio di ricercare un segno distinguibile del suo animo creativo e di una visione ideale del suo essere.
Roberto Bellucci nasce a Roma, ma si trasferisce presto, con i suoi genitori, in Africa a Mogadiscio all’età di 5 anni. Qui comincia ad avere la consapevolezza della “preferenza del piacere di accostare i colori” attraverso un giochino composto da una serie di chiodini colorati su una tavoletta usurata. Egli ha sempre vissuto in prossimità del mare, un luogo che per sua natura, si distingue per una luce molto forte. Luce che ritroverà qualche anno dopo a Portici, nel suo ristabilirsi in Italia con la famiglia. Qui viene iscritto alla scuola elementare dove crede finalmente di poter parlare in italiano, ma i suoi coetanei parlano il dialetto e di conseguenza non capisce nulla, cosicché il maestro lo prende per un braccio e lo porta a sedere vicino alla cattedra, “d’altronde un ragazzino che parla in italiano con una lieve inflessione romanesca diventa automaticamente lo zimbello della classe”. Alle scuole medie trova degli insegnanti che comprendono la sua predisposizione artistica, tant’è che inizia ad utilizzare i colori a tempera facendoli asciugare per poi farne un utilizzo analogo a quelli ad olio, baciando così, la genesi della sua tecnica espressiva che lui definisce “frammentazione cromatica”. Negli anni che conseguono il suo percorso di crescita, si trova a dover scegliere se andare o no al liceo artistico, cosa che non avviene e a sua volta, s’iscrive all’Istituto Tecnico Enrico Fermi di Napoli. Dopo il diploma, riflette molto se iscriversi all’accademia delle Belle Arti. Una decisione aggirata di lì a poco con una motivazione ben precisa: “se fossi andato all’accademia, mi avrebbero fatto emulare gli artisti del passato insegnandomi la storia dell’arte. Sarebbe stata una violenza su quella che è la mia identità artistica”. Sceglie dunque ingegneria, occupandosi di motoristica aereonautica fino a quando non ha ottenuto la pensione per dedicarsi finalmente a tempo pieno alla sua arte. Nonostante tutto ha sempre dipinto dal 1978 ad oggi, lasso del suo percorso evolutivo nel quale sviluppa la sua identità pittorica parallela ad un’identità tecnica. Una pittura che appare materica, luminosa, colorata, che si caratterizza con degli effetti grazie alla sottrazione del colore. Certo, una tecnica, che si interfaccia o se vogliamo si realizza in una dimensione “spirituale” che comprende una sorte di oggettiva bidimensionalità: quella del “Bellucci artista” che vive il suo dipingere esule dal resto delle cose in uno stato di vera ipnosi, dimenticandosi completamente della sua dimensione terrena anche per cicli di 12 ore. Condizione diversa dal “Bellucci uomo” che, riemerge non appena conclude il suo quadro e torna ad essere osservatore. Mi viene da aggiungere anche un bravo e intelligente comunicatore in ambedue le fasi, infatti, quando nella lunga e intensa telefonata ci si sposta tra una considerazione all’altra e, con rara gentilezza, mi lascia entrare nell’affinità elettiva del confronto, dice chiaramente la sua in merito ai critici dell’arte contemporanea sostenendo come per quest’ultima non possono esistere esperti: “l’arte contemporanea è qualcosa di attuale e non è storia, i critici servono soltanto per raccontarci i contesti nei quali si sono sviluppati e hanno realizzato i dipinti gli artisti del passato. L’artista del presente deve essere valutato e giudicato dai contemporanei e nessuno può andare a spiegare ad un contemporaneo l’epoca in cui vive perché quell’epoca è sua. Non c’è nessuno che può avere la pretesa di dire che quell’opera possa essere bella o brutta, lo può dire soltanto la gente della strada. Ad oggi, l’arte contemporanea ha smesso da tempo di essere figurativa, non cerca più l’immagine; se vai a Firenze di statue fatte molto bene ne trovi quante ne vuoi, sono ovunque, eppure quando ti ritrovi il David di Michelangelo vivi una certa suggestione. Per i canoni estetici dell’epoca non è nemmeno la statua meglio eseguita, per certi aspetti è anche sproporzionata, però… trasmette un’emozione. L’arte contemporanea fa questo. Non vuole più rappresentare l’immagine, ma tutto quello che dell’uomo non si vede e quindi le emozioni, gli stati d’animo, la propria spiritualità, la propria anima. Se prendiamo, ad esempio, i ritrattisti che eseguono alla perfezione la riproduzione dei volti, per essere fedeli devono annullare sé stessi, le proprie emozioni, altrimenti proiettano sulla tela quello che vedono loro. Invece tutt’altro, sono costretti a proiettare sulla tela quello che possono vedere tutti. La differenza e tutta qui! Molti dicono di non saper disegnare, non è vero! Tutti noi quando disegniamo non facciamo altro che rappresentare il nostro inconscio, il dramma è che spesso il nostro inconscio non ci piace e di conseguenza diciamo che il disegno è brutto”. Nei suoi quadri Bellucci tratta temi piuttosto pesanti, sebbene appaiono brillanti, colorati, luminosi… troviamo l’ingiustizia, l’orrore delle guerre passando per la bomba di Hiroshima, l’Olocausto. Egli considera questo uno “sforzo estremo” di rappresentare la storia nel suo dramma cercando di renderla accettabile; una ricerca dell’attrazione, del piacere, per affrontare e ricordare una cosa importante anche se drammatica. Per intenderci, un suo quadro recente “L’Umanità Perduta”, si presenta con una cromatica molto forte, quasi avvincente, pur facendo riferimento ad un dramma attuale, quello di Cutro. Chiedo all’artista come facesse a rapportare la sua dimensione onirica nel “momento” dell’arte in correlazione alla cruda realtà, fin dove riesca a spingere i “due mondi” in un contatto più o meno concreto di vicinanza o lontananza… “quando razionalizzo le immagini e le traspongo su tela cerco un innesco per chi si approccia al quadro, in effetti anche quella lì è una violenza che faccio all’osservatore perché in qualche modo, gli impongo una mia idea, ma l’osservatore dovrebbe interpretare in maniera assolutamente libera e percepire le sue sensazioni, che a sua volta, potrebbero portarlo in una realtà completamente diversa.
Roberto Bellucci dipinge attualmente i suoi quadri ad Agropoli, luogo al quale è molto legato e dove domenica 30 aprile alle ore 17:30 presso “La Fornace” chiuderà l’evento “Incontro tra arte, cultura e solidarietà, dialogando con la scrittrice Antonella Casaburi, autrice del romanzo “Mirari” per il quale – l’artista – ha realizzato nel 2021 il quadro omonimo: “Mirari” – Quando il destino incontra un sogno.
Per info e galleria virtuale: http://www.artebellucciroberto.com/