La prima Società nazionale per la protezione dei beni culturali nasce nel 1964, in Svizzera, con lo scopo di promuovere i principi della Convenzione de L’Aja del 1954 presso le autorità civili e militari e, nel corso degli anni, diverse sono state le Società sorte in vari Paesi tra cui l’Italia. La Società Italiana per la Protezione dei Beni Culturali (SIPBC) è stata fondata il 18 aprile 1996 a Viterbo, ed è un’associazione culturale no profit, d’interesse nazionale, non governativa, politicamente neutrale, costituita da volontari al fine di affermare o principi contenuti delle Convenzioni per il rispetto e la salvaguardia dei beni culturali e adottare le iniziative possibili per sensibilizzare l’opinione pubblica sui temi della tutela. E in tale quadro si colloca la Delegazione Autonoma Salernitana, arteicolazione territoriale della SIPBC nata nel 2020 ed attiva in tutto il territorio provinciale.
Lo Scudo Blu rappresenta a livello internazionale il simbolo per la protezione dei Beni Culturali che affonda le proprie radici nella Convenzione Unesco dell’Aja del 1954 e dei successivi protocolli aggiuntivi internazionali e identifica materialmente gli elementi del Patrimonio Culturale al fine di tutelarli.
Sulla scorta di queste necessità prefisse e al seguito del recente rinvenimento di un’anfora romana al largo delle coste di Palinuro da parte di un sommozzatore locale, la SIPBC redige un documento/comunicato con lo scopo di informare – nel merito – quanto previsto dalla legislazione, con l’intento di sensibilizzare e fornire quante più indicazioni necessarie, idonee ad ottemperare un comportamento corretto e consapevole per la tutela del patrimonio culturale.
Stilato e firmato dall’Avv. Giuseppe Di Vietri – Vicario / Delegato Affari Giuridici e Legali della Onlus – si rivolge a tutti coloro che rinvengono, in modo fortuito, un bene archeologico nel sottosuolo o nei fondali marini e comunque, in zone non delimitate da recinzioni archeologiche.
Un oggetto antico che torna in vita dopo molti secoli, è un avvenimento dal grande fascino, avvincente ed emozionante per chi lo vive e di grande suggestione per chi ne legge. Ma bisogna fare attenzione. Ed è per tale motivo che questa vicenda, per noi della Società Italiana per la Protezione dei Beni Culturali, è occasione utile per riflettere pubblicamente e sensibilizzare su come comportarsi quando si rinvengono fortuitamente beni archeologici nel sottosuolo o nei fondali marini al fine di un corretto e consapevole approccio verso il patrimonio culturale perché spesso vengono posti in essere (e talvolta anche osannati) dei comportamenti che, anche se in buona fede e magari realizzati da amanti del territorio e della propria storia, in realtà sono comportamenti potenzialmente dannosi proprio per il territorio e per la sua storia. Per comprendere ciò bisogna evidenziare come bene culturale non sia soltanto il reperto, da studiare una volta venuto alla luce, ma bene culturale è tutto il giacimento in cui quel bene si trova, tutto il complesso della stratificazione archeologica di cui il reperto è parte integrante e che è parte necessaria della ricerca storica. Il punto cruciale è che l’attività di scavo, smontando la stratificazione, la distrugge ed è pertanto irreversibile. Ed è principalmente per l’irreversibilità della stratificazione archeologica e l’unicità del deposito che le attività di ricerca devono essere realizzate da chi ha le giuste competenze tecnico-scientifiche poiché non è semplice attività di rimozione della terra attorno ad un reperto con la finalità di portarlo alla luce ma è una pratica di ricerca storica che, comportamenti sprovveduti, spesso posti in essere in buona fede, rischiano di danneggiare irrimediabilmente. Quindi lo Stato, per garantire standard scientifici adeguati, sottopone le attività di ricerca e scavo ad autorizzazione. Ma cosa accade quando i reperti archeologici non sono rinvenuti durante una campagna di scavo ma occasionalmente? Come si tutelano il reperto e il giacimento in cui è collocato?
L’art. 90 del Codice dei beni culturali e del paesaggio dice che chiunque rinvenga fortuitamente beni culturali nel sottosuolo o nei fondali marini deve provvedere a conservare tali cose “lasciandole nelle condizioni e nel luogo in cui sono state rinvenute” e a farne denuncia all’autorità entro 24 ore. Osserviamo come il Codice non disponga semplicemente di lasciare le cose lì dove si trovano ma “nelle condizioni e nel luogo” in cui si trovano. In poche parole quando si rinviene un bene archeologico bisognerebbe lasciarlo lì dov’è e non interferire in alcun modo con la stratificazione e, soltanto se vi sono delle necessità di conservazione che consigliano la rimozione, allora la legge dice che lo scopritore ha facoltà di rimuoverlo per custodirlo. Per di più, durante la conservazione, lo scopritore o detentore assume la qualifica di esercente una funzione pubblica e le spese di custodia e di rimozione saranno integralmente rimborsate dal Ministero. Naturalmente la rimozione deve avvenire in presenza di necessità conservative, altrimenti non solo non si ha diritto ad alcun rimborso ma addirittura questa rimozione non giustificata rischierebbe di configurare il reato.
Detto questo, quali sarebbero i casi in cui poter (o, meglio, dover) rimuovere un reperto archeologico fortuitamente rinvenuto? La legge non fornisce un elenco di ipotesi precise e dettagliate ma bisogna valutare le necessità del caso concreto… Sicuramente si deve segnalare alle autorità il luogo e le modalità del ritrovamento (se possibile, geolocalizzando il luogo di rinvenimento e scattando anche delle fotografie); non dire a nessuno dove è stato effettuato il rinvenimento; non portare le cose a casa e né fare ricerche personali nel terreno (anche magari con lo spirito di voler donare poi i pezzi ad un museo). Inoltre il luogo di rinvenimento o i luoghi in cui sono frequenti rinvenimenti non dovrebbero essere oggetto di escursioni guidate per turisti etc. e, magari, durante tali escursioni grattare la terra alla ricerca di reperti… Purtroppo anche comportamenti di questo tipo sembrerebbero aver luogo e bisogna dire, in maniera chiara, che sono illegali e soprattutto dannosi. Per quanto attiene alla rimozione dei beni dal luogo di rinvenimento, sicuramente, se ci si trova di fronte ad un bene completamente al di fuori del terreno, magari venuto fuori per uno smottamento, per ruscellamento o per altri motivi, prelevarlo potrebbe essere il miglior modo per custodirlo rispetto al rischio di impossessamento da parte di altre persone. Ma è bene rimuoverlo con cura, evitando di scavare ulteriormente alla ricerca di tesori nascosti immaginandosi dei provetti Indiana Jones alla ricerca del nulla perduto. Allo stesso modo se il bene è parzialmente interrato bisognerebbe evitare di scavare per farlo emergere. Se si tratta di un bene immobile sicuramente non bisogna fare nulla e lasciare tutto come si trova, senza scavare e né rimuovere eventuale terra o vegetazione poiché tale vegetazione (così come magari le incrostazioni di terra) potrebbero avere una funzione strutturale e la loro rimozione senza le dovute accortezze potrebbe causare danni irreversibili all’integrità del bene. Se il bene viene rimosso e portato bisogna assolutamente evitare di pulirlo: né usare acqua e né tantomeno sostanze chimiche di qualche genere. Ancora, se ad esempio questo bene si trova in mare bisognerebbe evitare di tirarlo fuori, sia per i possibili danni causati nelle materiali attività di rimozione ma anche perché la sola fuoriuscita dall’acqua di mare e il contatto con l’aria potrebbe causare dei danni. Insomma, i rischi sono tanti e tanti altri ancora ve ne sono nemmeno lontanamente percettibili dai non addetti ai lavori. Ed è per questo che è importante sapere che non ci si può improvvisare archeologi, lasciandosi travolgere dall’entusiasmo di aver rinvenuto qualcosa di antico, ma bisogna essere prudenti e consapevoli, perché soltanto così si fa del bene al proprio territorio e alla propria storia. Diversamente, invece si rischierebbe di fare danni oltre che a commettere dei reati.