L’idea di mettere su carta il suo più volte decennale impegno nei campi della didattica e della ricerca occupava da tempo i suoi pensieri. Riandare con la memoria a quelle esperienze, ripercorrere anni di lezioni, scoperte, condivisioni umane e scientifiche, mettere ordine in quell’affastellarsi di attività stancanti ma entusiasmanti, è stato per Luigi Rossi non tanto un nuovo impegno quanto una sorta di dovere verso se stesso. Il dovere di fare sintesi di una lezione di cultura umanistica che è stata un percorso di vita, un ricco e ampio girovagare nello sconfinato regno di Clio, un viaggio compiuto con tanti che si riconoscono suoi allievi ma che lui ha sempre ritenuto compagni d’avventura storiografica.
Incontro il prof in occasione dell’uscita del volume Mezzo secolo alla corte di Clio, col quale realizza quell’idea. Mi dice subito che, in realtà, non ha inteso solo presentare la sua esperienza ma quella più ampia dell’insegnamento della storia nell’Ateneo salernitano nei suoi primi cinquant’anni di vita e, più specificamente, nella sua facoltà di Scienze politiche a poco più di trent’anni dall’istituzione. Infatti, precisa: “Il sottotitolo recita La storia contemporanea a Scienze Politiche di Unisa”. Dunque, non è un volume di memorie personali e collettive, o perlomeno non è solo questo, ma lo si potrebbe intendere come un affresco storiografico dove il proprio passato è visto nel suo contesto, si unisce con quello più ampio di un’intera istituzione. “Sì, hai centrato il punto!”, esclama con soddisfazione. “Per le memorie personali ci sarà tempo e poi – confida – non intendevo fare una sorta di monumento a me stesso; il libro si occupa di passato, ma il suo sguardo è rivolto al futuro che è l’atteggiamento della storiografia più sana”. E continua: “Il libro non nasconde anche un certo intento pedagogico, non nel senso del vecchio motto ciceroniano della historia magistra vitae, ma perché vuole trasmettere la passione per la storia e il suo insegnamento, trasferire un metodo a chi la studia e a chi la insegna, ruoli spesso entrambi vissuti con noia e con quel nozionismo scolastico che è l’esatto contrario dell’apprendimento”.
Ma cosa c’è da sapere sulla “storia a Unisa”? – chiedo per entrare un po’ nel merito. “Non è solo la storia a ma la storia di Unisa ad avere il suo interesse”, risponde convinto. “Il volume traccia un rapido ma denso profilo degli sviluppi dell’istituzione salernitana, dal precario Magistero degli anni Quaranta all’Università di fine anni Sessanta, quando si avvia a diventare un Ateneo di massa. Ed è la storia di una città, della sua cultura, dei suoi rapporti con la vasta provincia, del suo sviluppo economico, dei cambiamenti sociali. In altri termini, l’Università cresce e cambia con la città in un rapporto più spesso dialettico che di reciproca collaborazione”.
E la storia e gli storici? “Anche qui – riprende il suo discorso – lo sguardo va ampliato. Si tratta, cioè, di guardare al ruolo dei docenti universitari, al loro contributo allo sviluppo dell’istituzione, alla loro capacità di fare ricerca ma anche formare nuovi ricercatori e, più in generale, cittadini consapevoli. Per questo si allarga lo sguardo a tanti docenti che non si occupano di storia, ma che sono centrali per le vicende dell’Ateneo, soprattutto nei suoi anni di crescita. I nomi sono tanti, da Aldo Masullo a Tullio De Mauro, da Fulvio Tessitore a Valentino Gerratana, da Biagio De Giovanni a Roberto Racinaro. Non tutti rimangono a lungo a Salerno, ma molti vi svolgono una parte importante delle proprie ricerche e contribuiscono al suo prestigio. Per passare agli storici, in Ateneo insegnano Gabriele De Rosa, che è il primo rettore quando l’Istituto diventa Università, e Renzo De Felice, che vi rimane per poco ma lascia non poche tracce del suo rigore storiografico”. Anche in questo caso i nomi sono numerosi, ma l’elenco completo lo si può leggere nelle pagine che passano in rassegna la distribuzione delle cattedre di storia nelle facoltà di Magistero, di Lettere e Filosofia, di Economia e Commercio, e nel corso di laurea in Scienze Politiche.
Eh sì, Scienze politiche! Prima di diventare Facoltà, è stata a lungo un corso di laurea di Giurisprudenza, vivendo tutti i limiti di una difficile convivenza per la schiacciante preponderanza numerica e di insegnamenti di questa Facoltà. Ne scrivo per esperienza diretta, avendola frequentata proprio negli anni a cavallo della sua trasformazione (e di quella di un intero mondo, con la caduta del Muro di Berlino, il crollo dell’Urss, la fine della guerra fredda).
Orgogliosamente, Rossi rivendica la sua importanza e ne fa la storia, soprattutto dal momento in cui – a luglio del ’92 – acquisisce quella dignità e quell’autonomia conferitele dalla qualifica di Facoltà. È davvero convinto – si nota dal tono delle sue parole – che le caratteristiche di Scienze politiche – la varietà degli insegnamenti, la molteplicità dei percorsi formativi, l’integrarsi di conoscenze a vari livelli specialistici – lungi dal costituirne quella indeterminatezza di cui spesso la si accusa, ne rappresenti, invece, il punto di forza, l’elemento centrale del suo valore formativo.
Il nostro prof ha passato una vita a Scienze politiche e, nelle pagine che ne ripercorrono la storia, si sente tutta la sua esperienza e l’intima conoscenza dell’ambiente. Passa, così, in rassegna i difficili primi anni, quando gli spazi erano pochi e il titolo di Facoltà appariva più formale che di sostanza; e gli anni dell’espansione e del consolidamento con i presidi Musi e Amendola, con la conquista di propri spazi, di un ruolo sempre più definito e di un certo prestigio anche per l’articolazione degli insegnamenti e la complessiva proposta didattica e formativa. Qui la storia dell’istituzione si incontra con la sua personale, negli anni in cui l’autore ha svolto l’ufficio di preside della Facoltà.
Viene spontaneo domandare quanto abbia influito sul suo “fare” storia una cattedra in una facoltà come Scienze politiche, da molti ritenuta “facile”. Mutuo l’aggettivo, e il suo uso ironico, da quanto lui stesso scrive nel volume. “Il termine facile – risponde – era frutto di un’errata percezione divenuta luogo comune. In realtà, quella facilità era un modo per tradurre, banalizzandolo, il termine più appropriato di complessità, cioè quella multidisciplinarità propria del percorso proposto. Oggi, potremmo chiamarla anche trasversalità, cioè capacità di fornire la varietà di competenze che attraversano i saperi degli ambiti politologico, diplomatico, storiografico ed economico. Varietà che consente di interpretare la modernità e di inserirsi nell’odierno mondo liquido ma interconnesso, globalizzato ma pullulante di localismi”. E aggiunge con convinzione: “Per raggiungere tali finalità, la storia è la regina delle discipline del variegato panorama scientifico di Scienze politiche. Ma, quando dico storia, intendo non la sua banalizzazione nozionistica o la stanca ripetizione di formule in cui si affastellano nomi, date ed eventi. No, la storia è la ricerca dei nessi tra i fatti, lo scavo tra il mare delle cause e delle conseguenze, l’interazione tra breve e lunga durata, tra locale e generale, sociale e politico! Insomma, processi, percorsi, influenze e interferenze, ma anche la ricerca di un metodo per scriverla e insegnarla. Dunque, la risposta è sì: a Scienze politiche non si può che fare una storia che, per contenuti e metodologie, si ponga sul piano di quella complessità dinamica e creativa che è la ragion d’essere della facoltà”.
Chi volesse rendersi conto delle complesse ragioni esposte da Rossi, dovrebbe leggere i densi capitoli dedicati a “La mia lezione di storia” e a “Il manuale”, un excursus nei contenuti di un modo di fare storia e sul senso che deve avere una buona esposizione manualistica. In quest’ultimo capitolo, il prof fa una sorta di sintesi del suo manuale di storia contemporanea uscito in due volumi nel 2016 per i tipi dell’Editrice Gaia. È una lunga e affascinante cavalcata nella contemporaneità articolata nei due secoli dell’Ottocento e del Novecento, compiuta come “una ricerca di senso nella post-modernità”.
Ma è soprattutto la seconda parte del libro a ricostruire il percorso didattico e umano dello storico, quella in cui il suo discorso si fa esperienza di vita. Gli chiedo cos’abbia significato ripercorrere quella vera e propria selva fatta di centinaia di tesi assegnate nel corso degli anni nelle varie discipline di cui è stato supplente o titolare di cattedra. La risposta, se un po’ lo conosco, è quasi ovvia: “l’emozione di comprendere nuovamente quanto sia feconda e stimolante la funzione di docente”. Un passo del testo, che è quasi una confessione, è ancora più esplicativo: “Leggere i nomi dei laureati nelle discipline di cui si è stato titolare diventa una sorta di film perché, pur se il tempo ha cancellato la fisionomia dei volti, persiste il ricordo di un rapporto docente-discente aperto all’approfondimento di problematiche mentre emergeva l’entusiasmo del sentirsi protagonisti di una ricerca capace di illuminare lo spirito e conferire capacità critica alla mente”.
Film, entusiasmo, spirito, mente: sono parole che rivelano, prima del rigore scientifico, il piacere di trasmettere e condividere la passione della scoperta. Sembra strano, ma non lo è. Rossi, infatti, era famoso (e temuto) – e stavolta sono io a confessarlo – perché assegnava quasi solo tesi di ricerca, apparendogli poco soddisfacente un lavoro di mera compilazione (che si risolveva, perlopiù, in un passivo copia e incolla). La sua scelta non era dettata dalla volontà di mettere i bastoni tra le ruote a studenti per i quali la tesi era solo un ostacolo fastidioso verso la meta, ma dall’intenzione sanamente pedagogica di trasferire un metodo, di far cogliere il valore stesso della ricerca, umano prima che scientifico. Non te ne accorgevi, ma il suo rapporto con lo studente tesista era di tipo socratico: il prof imparava con te, la sua conoscenza su questo o quell’altro tema cresceva con la tua. Da qui il suo entusiasmo e anche il tuo, se riuscivi a capirlo e a superare l’idea riduttiva di una tesi anonima e incapace di arricchirti.
Il film sulle tematiche assegnate è ricco anche se necessariamente selettivo, perché riguarda quasi tutto il campo delle discipline storiografiche della facoltà, avendo Rossi insegnato, di volta in volta o contemporaneamente, storia contemporanea, del Risorgimento, della Chiesa, delle Relazioni internazionali e l’amata storia degli Stati Uniti. “Mi è costato non poco dover selezionare, per esigenze di spazio e di unitarietà del discorso, tra i tanti lavori degni di nota licenziati negli anni”, dice mentre fa un elenco di alcune tesi per il quale rimandiamo alla lettura del testo.
Da una scorsa al volume, noto che il film sul lavoro della cattedra si estende anche ad altre esperienze didattiche e di ricerca, quali i corsi di perfezionamento, la partecipazione alla Scuola Interuniversitaria Campana di specializzazione all’insegnamento, il Laboratorio di storia “Ruggero Moscati”. Perché, non bastavano le tesi a illustrare il dinamismo della cattedra? – viene spontaneo chiedergli. “In un certo senso, sì! – non ha difficoltà a rispondere – Ma le tesi appartengono alla ricerca più che alla didattica, e quelle citate sono tutte attività didattiche organizzate per rendere più coinvolgente e creativo l’insegnamento della storia, superando la classica lezione frontale, l’esposizione meramente manualistica, lo studio mnemonico”.
Il prof ci tiene a evidenziare quella che ritiene tra le esperienze più importante svolte all’inizio degli anni Duemila: il Dottorato. “La sua attivazione – sostiene – veniva incontro all’esigenza di soddisfare la domanda di percorsi formativi post-laurea nell’ampio bacino di utenza dell’Università salernitana. Ed è motivo di grande soddisfazione aver potuto coordinare, in particolare, quello relativo al tema del declino dello Stato-nazione. Il dottorato riguarda sia la ricerca che la didattica, anche se più la prima che la seconda. È un percorso sostanzialmente propedeutico alla formazione di nuovi ricercatori. La soddisfazione deriva sia dal fatto che si trattasse di una sorta di coronamento scientifico della facoltà, un segnale del suo accresciuto rilievo nel panorama non solo locale, sia da quello che non pochi di quei dottorandi siano riusciti in seguito ad inserirsi nella carriera universitaria. E infatti, ho ritenuto di un certo interesse diffondermi anche sui lavori di ricerca di alcuni di essi che sono stati collaboratori della cattedra e poi docenti; un modo per ricordarne l’impegno e anche per cogliere la varietà delle tematiche coltivate in quel laboratorio storiografico che ho sempre ritenuto dovesse essere una cattedra universitaria di storia”.
Ne ero già al corrente, ma la nostra chiacchierata ha contribuito a rafforzare l’idea che l’insegnamento di Rossi non sia mai stato solo teoria, accademia, né tantomeno difesa di prerogative cattedratiche, ma abbia sempre cercato di essere lezione pratica, scambio di esperienze, comunicazione di valori. La sua attività, e quella dei tanti collaboratori, sempre aperta e disponibile a nuove sperimentazioni didattiche e collaborazioni di ricerca, spesso si è trasformata in convegno, incontro, conferenza, organizzati e tenuti in Università o, non di rado, fuori, presso enti, scuole, comuni, istituzioni varie. Anche di questo il libro in oggetto offre un’ampia ricognizione, anzi l’attività convegnistica sembra essere una di quelle a cui Rossi tiene di più. Convinto, gliene chiedo conferma. “Sì, – confessa – l’organizzazione di un convegno, o la partecipazione a un incontro proposto da altri, ha sempre costituito per me motivo di una certa soddisfazione, quasi di orgoglio. È quella, infatti, l’occasione per presentare le proprie ricerche, per fare il punto sullo stato delle conoscenze dei temi in oggetto, per far conoscere i lavori dei collaboratori e prendere atto di quelli di altri studiosi. Si tratta anche di un modo per fare, come si può dire, diplomazia della ricerca, avviando conoscenze personali, collaborazione con altre cattedre, università, scuole storiografiche. Ed è – conclude – il modo più concreto per uscire dalla propria torre d’avorio accademica e scendere in quelle realtà dove si fa la storia, dove c’è bisogno di conoscerla, dove essa si trasforma in esperienza. È qui, soprattutto, che lo storico esercita la sua funzione di stimolo civile e culturale, quel suo ruolo pubblico di intellettuale che non può rinunciare ad agire nel sociale, ad essere coscienza critica del potere e mai suo servo”.
I convegni di cui si dà conto, in effetti, sono dimostrazione di un impegno di ricerca e di una molteplicità e continuità di interessi davvero poco comune. Lasciando il prof, e ringraziandolo per avermi concesso un’amabile e amichevole chiacchierata, ricordo alcuni convegni: quelli sul tema del “tradimento dei chierici”, del dicembre 2002; sulla “Rivoluzione del 1799 in provincia di Salerno”, in occasione dei duecento anni da quegli eventi; sulla tragica impresa di Pisacane, a centocinquant’anni dal 1857, tenutosi a Padula, uno dei luoghi dello “sbarco”; su “Garibaldi e i garibaldini in provincia di Salerno”, organizzato due anni prima, in occasione del bicentenario della nascita dell’eroe dei due mondi; sulla drammatica e poco conosciuta esperienza degli IMI, gli internati militari italiani in Germania dopo l’armistizio del settembre ’43. In alcuni casi, gli incontri focalizzano l’attenzione su alcuni personaggi locali e non, come i fratelli Luigi e Francesco Cacciatore, il direttore dell’Archivio di Stato salernitano Leopoldo Cassese, il primo rettore dell’Università di Salerno Gabriele De Rosa. Ma è solo un accenno a quanto si può leggere nel testo, dove si comprende che quasi sempre quei convegni si sono trasformati in libri collettanei capaci di dare un respiro più ampio alle relazioni presentate nelle varie occasioni.
La lettura di questa parte consente di farsi più che un’idea sul dinamismo delle cattedre di Rossi e, più in generale, su metodi e contenuti del suo magistero storiografico. Per lui, l’animazione culturale è stata – e continua ad essere – una sorta di missione, è l’Università che si proietta nel sociale e lì ritrova il suo vero posto. D’altronde, lo storico non è un mero custode del passato, ma soprattutto un costruttore di ponti verso il futuro. La sua attività non va mai in crisi perché ce n’è sempre bisogno, né si conclude col pensionamento. Il nostro prof ne dà qui ampia dimostrazione.