Messaggio di Mons. Francesco Savino ai Giornalisti Diocesi “Dare voce al cuore”
“La servitù, in molti casi, non è una violenza dei padroni ma una tentazione dei servi”
Indro Montanelli
Cari e care giornalisti e giornaliste,
scrivervi è sempre una prima volta e, per questo, vorrei vi giunga tutto il mio entusiasmo nell’essere qui oggi a condividere, con voi, questi pensieri che sono per me occasione privilegiata di riflessione e di approfondimento ma anche una possibilità concreta di raggiungervi tutti e tutte.
Ho scelto per voi una immagine che ritengo carica di significato, tratta da un libro dedicato “al bambino che quella persona grande è stata”[1] e che tutti voi conoscete o avete almeno visto una volta nella vita. Rispetto a questa raffigurazione mi sono sempre chiesto quale istinto o quale raziocinio abbia spinto l’autore francese Saint- Exupéry a ritagliarsi una certa porzione di totalità nel deserto sconfinato dell’immaginazione, per farne un’icona, un messaggio che si costituisce di una certa presenza e splende e risplende, imponendoci delle domande di senso.
Siamo capaci di vedere, nel disegno di un cappello, un boa che digerisce un elefante?
Trovo che questa immagine e l’intero libro aderiscano totalmente al tema scelto dal Santo Padre Francesco per la 57° Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali il cui tema è appunto “Parlare con il cuore”. Lo scorso anno vi aveva consegnato un “ascoltare con le orecchie del cuore”, due anni fa quel “vieni e vedi” ed oggi, dopo aver udito e dopo aver visto, è tempo di far sentire la vostra voce. La voce è volontà di dire e quindi di esistere e quindi di resistere e quindi di tracciare un ponte sonoro che mi unisca all’altro o altra attraverso un canale che rende qualcosa di invisibile un’esperienza concreta e condivisa, una materia che porta dal “qui” al sempre più lontano, che si appropria del mondo, che allevia e smarrisce, seduce e uccide, accarezza o scortica[2], la voce (e quindi la parola) è qualcosa in cui vibra l’intelligenza e che riunisce tutti i sensi. Dalla voce inizia la vita, nella cavità orale, avviene il miracolo di una gestazione: la nostra bocca si svuota per dare alla luce la parola e spetta solo a noi rendere fecondo questo parto, dare un corpo al flatus vocis che è la sonorità della nostra anima. La vostra voce, amici e amiche giornalisti, è la parola, scritta, ricercata, amata odiata, sentita, insignificante e poliedrica. Quella stessa parola che rimbalza sui vostri articoli, che informa e deforma e trasforma, quella parola che, in un certo senso, può essere il riflesso della Parola se raccontata e narrata col cuore. Per questo, in occasione del Santo patrono dei giornalisti, San Francesco di Sales, ho deciso di regalarvi la raffigurazione dello scrittore francese perché il cuore vi porti sempre a vedere oltre, a parlare oltre senza sconfinare nello sproposito ma cogliendo “altro”, quell’altro che declinato nell’informazione, è il senso del servizio che offrite con il vostro lavoro. Il mio invito vuole essere proprio quello di ripensare al vostro servizio non come ad una tentazione di servitù (l’immagine suggerita da Indro Montanelli mi sembra di una pungente eloquenza) ma come ad un dono che elargite per le comunità che abitate.
Per parlare, scrivere e raccontare con il cuore, è necessario avere infatti a cuore le sorti dell’uomo. Fu don Lorenzo Milani ad adottare il motto «I care», letteralmente «Mi importa, ho a cuore». Questa frase, scritta su un cartello all’ingresso della scuola di Barbiana, riassumeva le finalità educativa di una scuola orientata a promuovere una forma di sollecitudine per l’altro, attenta e rispettosa, per sollecitare una presa di coscienza civile e sociale. Sarebbe bello che questa frase campeggiasse come frontespizio sulle vostre redazioni, ma soprattutto nelle vostre menti e nei vostri cuori.
Nell’azione formativa di don Milani l’“I care” era un sinonimo di “per te ci sono”, “sono al tuo fianco”, “puoi contare su di me” cioè l’empatia e la creazione di un rapporto di fiducia. Scegliendo di fare i giornalisti voi avete deciso, e siete chiamati a deciderlo ogni giorno, di prendervi cura degli altri, di avere attenzione e interesse al mondo degli uomini e delle donne del vostro tempo. Questo richiede la capacità, la generosità e il coraggio di non essere centrati su sé stessi. Vuol dire incarnare il valore della cura per debellare la cultura dell’indifferenza, dello scarto e dello scontro, oggi così spesso prevalente.
Prendere a cuore la vita degli altri, significa assumersi la responsabilità di concorrere con i gesti e voi soprattutto con le parole, alla costruzione di una buona qualità della vita per tutti. Riferimento essenziale della pratica della cura è la ricerca di ciò che fa bene. Questa esigenza di sguardo misericordioso sui fratelli, di cura del prossimo nel cammino della vita, trova la sua più intensa espressione nella parabola del Buon Samaritano che invita a non occuparsi solo del proprio viaggio esistenziale, ma a fermarsi e prestare attenzione all’altro, capire ciò di cui ha bisogno e agire con prontezza.
Il buon giornalista deve essere come il Buon Samaritano, cioè la figura biblica del viaggiatore che si ferma a soccorrere il bisognoso. I giornalisti di un tempo, per trovare le notizie, consumavano le scarpe sulla strada, oggi si consumano gli occhi davanti ai monitor dei computer e per questo Papa Francesco vi ha esortato a tornare nelle strade, ormai sempre più ignorate per le ragioni più varie come la pigrizia, l’indifferenza e l’intolleranza, per tornare invece a narrazioni più vere, più aderenti alla realtà, dei suoi protagonisti e dei loro bisogni.
La chiave della buona comunicazione è l’attitudine del giornalista ad essere e farsi “prossimo”. Il poveraccio mezzo morto a terra, derubato e malmenato dai briganti, è la nostra/vostra notizia. Il giornalista guarda, si ferma e soprattutto, si fa carico della notizia, cioè la verifica e la approfondisce: si fa tante domande sull’accaduto, si dà anche qualche risposta probabilmente, ma non si preoccupa che la notizia sia gradita, problematica o scandalosa. Se è una notizia, senza show o morbosità, semplicemente la offre ai suoi lettori.
Chi comunica si fa prossimo.
Nella parabola del buon samaritano e quindi del buon comunicatore, Gesù inverte la prospettiva: non si tratta di riconoscere l’altro come un mio simile, ma della mia capacità di farmi simile all’altro. Comunicare significa quindi prendere consapevolezza di essere umani: il potere della comunicazione è la prossimità. Quando la comunicazione non parla e non scrive con il cuore e ha invece il prevalente scopo di indurre al consumo o alla manipolazione delle persone, ci troviamo di fronte a un’aggressione violenta, come quella subita dall’uomo percosso dai briganti e abbandonato lungo la strada, come leggiamo nella parabola. In lui il levita e il sacerdote non vedono un loro prossimo, ma un estraneo da cui era meglio tenersi a distanza.
Davvero possiamo dire che in questa pagina evangelica troviamo un “vademecum” per il buon giornalista, perché contiene i tre verbi che deve incarnare chi vuole farsi prossimo agli altri: vedere, fermarsi e toccare. Il buon giornalista deve vedere, guardare da vicino le situazioni di sofferenza, rendersi conto di chi gli sta accanto, deve vedere da vicino. Ed è un vedere non fine a sé stesso, ma un vedere che va a fondo, che va a comprendere i perché. Dietro ogni sofferenza, dietro ogni lacrima ci sono molti perché: il giornalista cerca di scoprire le cause di un malessere sociale.
Ma per vedere, osservare e cercare di capire bisogna fermarsi. Questo vuol dire sottrarsi alla dittatura della fretta e abitare invece il tempo e lo spazio della riflessione, fare domande, perché il giornalista deve essere il custode delle notizie, al cui centro non ci sono la velocità nel darle e l’impatto sull’audience, ma le persone. Un giornalismo che scrive con il cuore si pone alla ricerca delle cause reali dei conflitti, una responsabilità che chiede di educarci continuamente al discernimento, alla verifica, all’approfondimento. E infine il giornalista, deve toccare e per toccare deve sporcarsi le mani, cioè scrivere con coraggio, anche o soprattutto, andando controcorrente. Non è facile, ma quello che dovrebbe guidarci sempre è la paziente anche se scomoda ricerca della verità che alla fine sempre viene alla luce. Ci sono tanti giornalisti che con umiltà e perseveranza non fanno una informazione di Palazzo.
Tutti, in ogni singolo momento della nostra vita e quindi voi nel nostro lavoro, siamo chiamati a scegliere se accontentaci di una mezza verità o cercare la verità tutta intera.
Le virtù del giornalista/buon samaritano sono particolarmente necessarie sulle strade virtuali del nostro tempo, per non cedere alla disumanizzazione. Oggi c’è una sfida in più, che si afferma con forza per quelli che fanno informazione: la custodia dell’umanità. Oggi camminiamo sul crinale difficile del transumano, del disumano, nei rapporti sociali, nei rapporti con i diversi da noi. È una sfida che va a toccare la radici stesse della vita, della comunicazione della vita e di ciò che genera i rapporti sociali, che costruisce la comunità. L’informazione ben fatta, al servizio delle persone, popolare nel senso che serve alla gente, che serve al popolo e non se ne serve per altri fini, è un pane che dobbiamo sempre spezzare e dare a tutti.
Oggi percorriamo soprattutto le “strade” digitali, siamo costantemente connessi, ma occorre che la connessione sia accompagnata dall’incontro vero. Non possiamo vivere da soli, rinchiusi in noi stessi. Il mondo dei media non può essere alieno dalla cura per l’umanità, non dunque una rete di fili ma di persone umane.
Nel tempo della interconnessione, dei social, del passaggio della società della comunicazione alla società della conversazione, dobbiamo stare attenti a non trasformare la rete in un luogo dove più ci si addentra più si perde la propria unicità e la propria identità personale e anche l’orientamento. Il rischio è quello di smarrire la capacità di distinguere fra vero e falso, tra coerente e incoerente, rimanendo intrappolati in un gioco in cui finisce ogni relazione vera.
Le reti sociali sono diventate giornalismo sociale, dove appunto si fondano anche le nostre identità, le nostre conoscenze, le nostre memorie, le nostre scelte; da un lato ci permettono di essere in ogni luogo e in ogni tempo, e dall’altro il modo in cui ci avvolgono, virtuale, disincarnato, rischia di ridurre tutto ad un dualismo feroce, a quel dualismo amico-nemico che non costruisce un giornalismo di pace, ma costruisce un giornalismo di rancori, una identità fondata sulla negazione dell’altro.
La rete da un lato riscatta le periferie dalla loro marginalità, dall’altro rischiano di distruggere il mondo reale per sostituirlo con un luogo dove lo spazio e il tempo sono annullati, dove la radicalizzazione violenta diventa una tentazione facile, strumento potente e terribile, capace di produrre maggioranze feroci e minoranze fanatiche, capace di unire ma anche di scavare divisioni profonde, trasparente ma anche opaco, custode della verità ma anche della menzogna.
La sfida del giornalismo che parla con il cuore e si fa costruttore di pace è dunque nella capacità di essere misura, metro, parametro, di fronte a tutto questo, di recuperare capacità di visione e di condivisione. Il giornalismo che parla con il cuore è un giornalismo nutrito di un uso responsabile delle parole. Che uso facciamo delle parole nel racconto di quel che siamo, di quel che facciamo, di come viviamo, nella costruzione cioè della nostra storia? Le parole sono alla base della nostra comunicazione, per questo è bene che siano quelle e quelle giuste, quelle che aiutano a capire. Le parole possono essere pietre scagliate da una massa di persone coperte dall’anonimato del web, possono essere muri che bloccano ogni tipo di scambio o dialogo gli individui. Ma le parole possono, anzi devono, essere pietre che costruiscono le basi di una società informata e ponti che consentono di far incontrare persone per condividere e confrontare idee e opinioni superando difficoltà e ostacoli di qualsiasi natura. Le parole, che esprimono i pensieri e spesso precedono le azioni, devono chiamarci a rinnovare le responsabilità sia come singole persone sia come collettività.
Domandiamoci che genere di parole utilizziamo: parole che esprimono attenzione, rispetto, comprensione, vicinanza, compassione, oppure parole che spargono veleni? In un momento di crisi e di tensione, di paura e di squilibri internazionali, la pace si costruisce a cominciare dal linguaggio. Le parole creano legami, suggestioni, colori, paesaggi. Le parole contengono un senso e danno un senso, traducono il senso dell’esistere. Le parole viaggiano dentro di noi e ci fanno viaggiare, trasformano, narrano e creano ascolto. Per questo le parole vanno scelte con cura perché, a loro volta, possono curare, possono salvare. Nella Bibbia ebraica il termine adoperato per definire la parola arca vuole dire tutt’altro: ciò che Dio consigliava a Noè di costruire era, in ebraico antico, una “tebah”, che voleva dire “parola”.
Bisogna dotarsi di parole, costruirsi un linguaggio, per sottrarsi al diluvio.
L’icona del buon samaritano, che fascia le ferite dell’uomo percosso versandovi sopra olio e vino, vi sia, ci sia di guida. La nostra comunicazione sia olio profumato per il dolore e vino buono per la condivisione. La nostra testimonianza al servizio dei fratelli con il dono della parola non provenga da trucchi o effetti speciali, ma dal nostro farci prossimo, con amore e tenerezza, di chi incontriamo ferito lungo il cammino della vita.
Vi auguro di vedere sempre oltre, di ricercare in voi quella specialità che vi abita, di attraversare il deserto della vostra e dell’altrui invisibilità per dare un corpo a pensieri di senso, per ricercare sempre quell’essenziale… invisibile agli occhi.
Cassano all’Jonio, 24 Gennaio 2023
memoria di San Francesco di Sales
Vostro
✠ don Francesco, Vescovo