Sabato scorso ho partecipato alla presentazione del saggio “Perché proprio a me?”. Non pensavo che una storia di malattie – oggetto del libro – potesse essere così coinvolgente. Ma la sala era piena e il pubblico attento, merito del curatore del volume, il dottore Masullo, e delle protagoniste. Con coinvolgente semplicità hanno raccontato la loro esperienza sollecitando una generale empatia mentre comunicavano i loro sentimenti: dalle paure iniziali alle progressiva speranza. Perciò, più che storia di malattie, il volume comunica la cronaca di successo nel confrontarsi con un subdolo nemico come il cancro. Gli interventi delle interessate hanno aiutato a porsi delle domande e a trovare risposte riflettendo sugli interessi criminali di chi inquina e come la logica ed il cuore umano possano trovare un rimedio.
L’esempio di medicina narrativa del dottore Masullo conferma l’argomentazione del dottor Botti circa la portata sociale di questo tipo di malattia. Un ruolo importante è svolto dal medico, il quale deve convincersi che questa esperienza traumatica per l’interessato è un percorso di vita. Perciò, egli deve farsi carico del paziente e sollecitare in modo sinergico la collaborazione di tutti gli specialisti per procedere anche ad una gestione psicologica. Raccomandabile è la terapia del sorriso con uno sforzo multidisciplinare per sollecitare la prevenzione ed aiutare a superare la sindrome del tabù del male incurabile, sintomo d’inveterata ignoranza. Il racconto biografico delle protagoniste è stato un atto di coraggio proposto con estrema sincerità in modo semplice e, per questo, ancora più coinvolgente, esempio di medicina narrativa che conferisce spazio al malato per il necessario rispetto conferito all’esperienza vissuta. Così si supera la prassi di un approccio solo oggettivo, fatto di test e di tecnica, per dare spazio alla dinamica soggettiva, capace di esaltare l’interazione nel rapporto medico-paziente.
Leggere il saggio sollecita a porsi domande e condividere la prospettiva di Giobbe. Il protagonista di questo capolavoro della letteratura mondiale protesta perché si sente innocente, quindi ritiene di non meritare la traumatica esperienza alla quale sembra condannato dal capriccio di poteri superiori. Egli protesta contro presunti amici, petulanti tuttologi, chiama a testimone Dio, il quale accetta il dialogo ed alla fine lo convince che la Sapienza è incommensurabile e la mente umana deve accettare i propri limiti. Giobbe, come si legge nell’ultimo capitolo del libro, esce convinto da questo meditazione sollecitata dalla Parola divina, così la sua malattia si trasforma in opportunità per un nuovo inizio. In questa chiusura è racchiusa tutta la dinamica della speranza, caratteristica identitaria dell’uomo, sentimento che guarda al futuro e così dilata orizzonti e prospettive. Si delinea uno speciale nesso tra tempo e speranza.
Questo atteggiamento, applicato al dolore, diventa una utile opportunità per riscontrare nell’hic et nunc il kairòs, perché finché c’è vita c’è speranza. I malati oncologici sono sottoposti a sofferenze fisiche e psicologiche, soggetti a fratture biografiche e biologiche della propria quotidianità. La malattia è molto subdola, genera ansia, paure e speranze nell’alternanza dei risultati della terapia, una attesa della cura che coinvolge ambiente ospedaliero, operatori sanitari, ma anche le famiglie. Si tratta di situazioni che richiedono una grande capacità di osservazione per stimolare il “conosci te stesso” nella labilità del confine tra salute e malattia. A queste condizioni si supera il riduzionismo biomedico per approdare alla vera conoscenza del dolore, un percorso traumatico perché rimane sempre un mistero, acuito oggi dallo scontro col delirio di onnipotenza generato dal progresso di una modernità che non tollera sconfitte. Il dolore cambia da dentro, genera solitudine. Per parlare della sofferenza occorre saperla ascoltare senza pregiudizi perché la malattia muta carattere e condiziona i sentimenti. Non la si affronta da impassibili stoici, novelli Budda, né risulta adeguata una mera riflessione filosofica.
Per individuare l’origine di ombre minacciose un mezzo utile, come hanno sperimentato alcune delle protagoniste di “queste storie”, è Cristoterapia. Nel vangelo la guarigione viene presentata come una decisione di cambiare vita e riacquistare fiducia (Gv 5,2-5), convinti che Dio crea l’uomo a sua immagine, ma siamo noi a determinare la somiglianza per vivere in pienezza la libertà in un contesto di pace, scevri da egoismi ed alieni da ogni tipo di sopraffazione. Allora anche il dolore, componente della nostra fragilità ed evidente manifestazione della nudità dell’uomo per cui risulta impossibile fuggirvi, può essere orientato, trasformato in sacrificio, un fare sacro. Risulta faticoso, ma certamente rinsalda la speranza ricordando che Gesù non lo ritiene una punizione, ma una opportunità per riflettere e trovare orizzonti più ampi (Lc 13,1-5).
Dio conosce il dolore in Cristo, il quale non lo spiega, ma assume su di sé la sofferenza e la trasforma, insegnando che condividere è un mezzo per alleviare fino alla nostra destinazione finale che è la Pasqua, quando il Risorto si rivela, ma continua a portare le ferite nel corpo. Quindi il dolore dell’innocente, pur rimanendo incomprensibile, assunto da Dio muta prospettiva. La fede ci dice che egli s’identifica con chi soffre per cui, pur se non risolve problemi connessi alla sofferenza, la trasfigura. Questa affermazione non è sufficiente per convincere i tanti mendicanti cercatori di senso, ma ci fa ritenere che non siamo soli e, se il pianto irriga il nostro viso, certamente può trasformare la personale “Via Crucis” in “Via Lucis”. Lo hanno testimoniato le protagoniste delle delicate, stimolanti, esemplari storie raccolte dal dottor Masullo. Pur crocifisse, hanno saputo rotolare il masso della paura, l’abbraccio della speranza ha fatto loro sentire l’invito del Risorto che ha chiamato per nome per continuare ad accompagnare nel pellegrinaggio della vita.
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