Incontro Augusto nel suo “ghetto” a Vallo della Lucania (così lui chiama il suo spazio vitale), un ambiente sonoro zeppo di libri, oggetti “stracquati”, lampade costruite con pezzi di saracinesche, strumenti musicali esotici e grandi tele mezze dipinte che attendono un evento che le salvi. Dopo aver reso un doveroso omaggio alla musica progressiva (Aquiring the Taste dei Gentle Giant), lui alla batteria e io al pianoforte, mi accingo a intervistarlo comodamente seduti su due poltroncine rigorosamente riciclate.
- Augusto, in pieni anni ’90 ero ragazzino e ricordo i tuoi quadri, le tue mostre, il tuo essere artista come pittore oltre che raffinato e colto musicista. Da un po’ di tempo hai intrapreso un nuovo percorso di ricerca, sposando l’utilizzo di un materiale particolare come il ferro. A tal proposito di recente è stata inaugurata una tua opera all’ITCG E. Cenni. Come nasce questo impulso?
Ho cominciato ad elaborare queste opere con l’intento di caratterizzare dei luoghi o dei percorsi che abbiano come punto di riferimento il ferro, un’impronta che tracci un ricordo generato dalla mia azione, una mia testimonianza connessa al senso della restanza, della rimanenza, al nostro senso dell’appartenenza e delle nostre radici. Tant’è che il mio primo lavoro svelato in questa direzione si chiama “semenza”, nel quale si ha a che fare con il simbolo del seme, delle cellule che si aprono in un baccello. È un’opera alta quasi 4 m. che a breve, sarà inaugurata alla Fondazione Alario ad Ascea Marina. Solitamente questi lavori vengono regalati a chi me li chiede e sono ben lieto di lasciare un segno della mia entità. Un’altra condizione importantissima è l’utilizzo, o meglio, il riutilizzo di materiali andati, di scarto.
- Infatti notavo che metti alla base del tuo fuoco ispiratore un concetto ben saldo, quello del riciclo?
Sì. È un’idea che si relega alla filosofia dell’arte ambientalista ed ecologista. Se tu vedi alcune opere che ho già esposto, sono formate da piccole “sculture” lignee che il fiume ha eroso nel tempo trascinandole e depositandole dolcemente a mare.
- Pur non essendo un amante delle etichette, si può dire che in questa ricerca hai letteralmente abbracciato almeno tre correnti storiche: arte povera, arte naturalistica e processuale.
È giusto quello che dici. Duchamp ad esempio decontestualizzava l’orinatoio (che lo stesso Duchamp chiamava fontana) e lo poneva in un museo. Il solo fatto che questo gesto lo facesse un artista faceva sì che quell’orinatoio diventasse un’opera d’arte. Duchamp si spinse perfino a teorizzare che basta ad un artista pensare semplicemente ad un oggetto perché quell’oggetto diventi opera d’arte. E siamo ai limiti della creazione estetica. È un gioco, un gioco che ha a che fare anche con il senso esteso della parola gioco, dell’ironia, del mettersi in gioco e del giocare con le cose, con la natura.
- Come contestualizzi il “giocare” nella tua arte?
In effetti c’è sempre stato l’impulso interiore di manifestare qualcosa che possa essere visto e goduto, l’importante è che abbia un senso, che riesca a mettere in pentola un sentimento o l’ordine stesso delle cose. È il bisogno estetico o l’unione che ci lega al pensiero, alle azioni, al gesto e sono le cose che attualmente mi interessano di più, ovvero prendere materiali che hanno a che fare con i primordi dell’umanità, come in questo caso il ferro utilizzato 1500 anni prima di Cristo, un rapporto diretto con il mito come con la mitologia del fuoco, della ruggine, della lacerazione, della forza che è impressa e che sta dentro la terra stessa che si fa ferro, si fa lancia, si fa arma, scudo o elmo. È sicuramente uno dei punti che mi hanno portato a lavorare e quindi, a giocare con questi mezzi. Pertanto, una cosa molto interessante è vedere questo metallo che ha un suo fascino unico nella ruggine che a sua volta forma dei disegni particolarissimi grazie alle condizioni atmosferiche. Io li lascio così coprendoli con della semplice vernice trasparente, quindi c’è un’ulteriore lettura sull’aspetto plastico – tridimensionale. Tuttavia, come accennavo, vedere il ferro “buttato” che ridiventa ferro sotto un’altra forma, prenderlo e toglierlo dalla terra come oggetto rifiutato, mi suggerisce il bisogno di legarmi alla filosofia del riciclo in termini estetici, nient’altro che prelevare la materia, assemblarla e collocarla nel mio lavoro attraverso un excursus del mio viaggio attraverso la storia dell’arte in danza con le mie figurazioni interiori. L’installazione del Cenni è stata generata da pezzi di ferro che probabilmente provenivano da scale o roba del genere, ecco, tutti quegli elementi così lunghi e spigolosi mi hanno riportato alla mente le prime opere cubiste di Picasso e ho trovato in “Les Demoiselles D’Avignon” un punto di lavoro; vi sono raffigurate 5 donne con la maschera africana, mentre io ho fatto tre donne con il becco di gallina. Nel campo dell’arte ci sono sempre i richiami, natura non facit saltus come in questo caso, l’arte non ha fatto nessun salto. Cèzannes viene prima di Picasso, ma già aveva dettato la linea; Monet nelle Ninfee già aveva aperto il mondo all’espressionismo astratto. È il divenire delle arti direbbe Gillo Dorfles, dove non c’è mai un solco, una spaccatura, un muro che deve cadere. Ovviamente in arte, essere originali è molto importante, non ha senso rifare la pittura del ‘500 o dell’800 o rifare gli impressionisti, tant’è che si cerca da più di cent’anni di creare un altro stile di linguaggio. Potrebbe essere in parte il caso di Maurizio Cattelan, con la sua opera L.O.V.E (acronimo di Libertà, Odio, Vendetta, Eternità) posta davanti la borsa di Milano. Quel dito di Cattelan è un’opera ironica che i milanesi hanno avuto difficoltà ad accettare, tanto che il grande critico d’arte recentemente scomparso Philippe D’Averio aveva proposto di trasferirla a Bologna, città più accogliente e spiritosa, tuttavia il dito medio alzato è un simbolo fallico e mostrare un fallo è un comportamento primitivo
- E qui entra in gioco la provocazione…
Però fa riflettere. Se metto la cacca d’artista dentro la scatoletta, se faccio come Michelangelo Pistoletto poggiando un cumulo di stracci in un museo faccio riflettere. Persino Damien Hirst che seziona vacche inserendole in formalina dovrebbe far riflettere, ma qui ci sono aspetti nel mercato dell’arte che è una specie di mercato delle vacche che ho difficoltà a comprendere ed è probabilmente un mio limite…
- Probabilmente perché la tua estrazione, la tua formazione si riconduce e si identifica attraverso il concetto estetico del “bello”?
Sicuramente si, le avanguardie storiche che ho apprezzato e studiato, dal futurismo al surrealismo al dadaismo vanno in questa direzione. Ricordo una volta, avevo 14 anni, andai a vedere con mio padre a Roma al Museo di Arte Moderna, una mostra di Man Ray, un artista svizzero dadaista e fotografo. Si trattava di una sua installazione che consisteva nella rappresentazione di una mela vera sotto una teca, che per tutta la durata dell’esposizione, di 10-15 giorni, doveva marcire. Questo 50 anni fa! Quando in tempi recenti Maurizio Cattelan fa una cosa del genere con la banana, non fa altro che scimmiottare quello che già era stato intuito dai veri artisti, perché – la storia – si ripete e certe volte si ripete come surrogato scimmiottando sé stessi, un cortocircuito che non credo abbia più senso. Ormai dopo la land art, dopo l’arte cinetica e dopo i ready made è stato già detto tutto. L’arte nell’epoca – diceva Walter Benjamin – della sua riproducibilità tecnica non ha più senso, non possiamo fare altro che sorridere e da qui, deriva la mia azione ironica e autoironica. Vogliamo giocare? Giochiamo.
- Tant’è che Duchamp, più di cent’anni fa, aveva anticipato le sorti espressive del linguaggio dell’arte moderna…
Un genio, un’avanguardista, uno scacchista. Uno dei pochi dipinti che ha fatto, nel 1912 “il nudo che scende le scale” è un capolavoro con il quale anticipa Picasso, dopodiché, non ha più dipinto. Avrebbe rischiato di ripetersi. Ad oggi non saprei dire che senso ha fare delle opere d’arte, per questo motivo trovo appagamento soprattutto nel gusto dello scegliere, del gesto, del faber, della manualità e quindi lavorare un materiale primordiale.
- Stai continuando anche a dipingere?
Ho abbandonato temporaneamente l’idea di dipingere perché ho continuamente bisogno di sperimentare. Ormai non si dipinge da più di 100 anni, non esiste più la pittura come mezzo espressivo, non rappresenta più quello che l’arte può dare in termini di messaggio, di vibrazioni, di visibilità, ma soprattutto di azioni che hanno a che fare con il sentire dell’uomo nella sua dimensione estatica – estetica, democratica e libera. Non escludo il ritorno.