Nel passo del Vangelo della scorsa domenica si parla del Tempio e per l’ennesima volta Gesù prende le distanze da questo luogo sacro, dai suoi sacerdoti e dai relativi rituali. In effetti Egli non si è mai recato al Tempio per pregare, il costante rapporto col Padre nell’orazione lo intrattiene sempre in luoghi solitari. Si recava al Tempio per parlare al popolo che vi accorre numeroso e su quel luogo di culto pronuncia parole amare. Egli invita a non dare più importanza ai templi – cioè al clero, ai rituali, alle devozioni – che al Vangelo; ribadisce che la religione è mediazione per incontrare Dio e disponibilità a prendersi cura degli altri. Nel passo (Lc 21,5-19) si fa riferimento anche alla paura del presente e alle incertezze del futuro; ma elemento dominate è la possibilità di riflette sulla storia considerata come scenario delle azioni degli uomini e luogo dove il Signore si rivela come Salvatore.
L’evangelista Luca propone il dialogo tra alcuni osservatori colpiti dalla bellezza del tempio e Gesù, il quale invita a non fermarsi all’apparenza e impegnarsi a discernere le cose che passano da quelle che rimangono, andare all’essenziale e considerare ciò che è destinato a finire dalle cose che restano perché fondate sulla roccia, che è Cristo. Egli tenta di trasformare passivi osservatori di bellezza in attenti valutatori del vero senso della storia. Da qui l’importanza del quando e del come riconoscere i tempi nuovi. Egli impartisce utili consigli. Il primo è non farsi ingannare e credere al primo venuto perché non abbiamo bisogno d’indovini o di profeti improvvisati. E’ sufficiente la Rivelazione e la Chiesa, comunità di battezzati accomunati dalla stessa fede, pronti ad aiutarsi vicendevolmente grazie alla dignità battesimale, dono dello Spirito, e con animo fraterno prendersi cura di chi è in difficoltà.
Il secondo consiglio è saper discernere ciò che accade, tante calamità sono conseguenza delle cattive scelte degli uomini. La stessa natura si ribella quando la logica del profitto determina opzioni che minano l’armonia del pianeta, vero tradimento del mandato ricevuto di essere i custodi del creato. Rispettare queste raccomandazioni determina la possibilità di evitare false paure, saper discernere la presenza di Dio nella storia e vivere eventuali persecuzioni consapevoli di non essere mai soli. Infatti, il discepolo di Cristo attende il Signore convinto che il momento attuale può essere quello della prova che lo spinge a dare testimonianza. Perciò, egli non subisce passivamente l’imprevedibile, ma vigila nella fedeltà, persevera, pronto a sopportare le avversità con amore perché si vive la vita di Cristo. Il cristiano non è mai contro gli altri ma testimonia il già del Regno. Il crinale della storia col suo versante oscuro, fatto di violenza, non deve impedire di sperimentare la tenerezza che salva rendendo prezioso anche le cose più piccole. Perciò il Vangelo non anticipa le cose ultime ma ne svela il senso sollecitando la nostra perseveranza. L’impegno umile nel quotidiano aiuta a curare ogni ferita perché il filo rosso della storia rimane saldo nelle mani di Dio, la cui paterna presenza assicura sempre un dopo migliore.
Il Signore invita a non perdersi d’animo perché è Lui ad ispirare “un linguaggio e una sapienza” per disarmare la violenza. Da sempre siamo alla ricerca di senso mentre nel nostro quotidiano sperimentiamo l’inarrestabile fluire del tempo in un mondo che rischia di divenire una mortale pattumiera. Tanti, incapaci di gesti responsabili perché poco desiderosi d’impegnarsi, ricercano mille illusioni per cullarsi in un presente nebuloso senza porsi domande. Il vangelo invita a considerare la prospettiva che ci attende acquisendo uno sguardo d’insieme circa l’esistenza grazie all’annunzio che quelli che credono in Dio non perderanno “nemmeno un capello del capo”.
L’unica realtà che il tempo non riesce a distruggere è l’impegno a perseverare nel bene. La lotta contro il male attende la nostra partecipata testimonianza, contributo alla riflessione sul senso della vita. Spogliato del linguaggio apocalittico, comprendiamo che il brano del vangelo non intende descrivere la fine del mondo, ma fornire indicazioni sul significato del suo mistero, contribuire a riaccendere la speranza nella consapevolezza che ogni esperienza di dolore prima o poi muta perché nel caos determinato dalla cattiveria degli uomini il Signore invece di giudicarci continua ad amarci. Questo è il solido fondamento per perseverare, unica possibilità di salvezza; non si fonda su un rinunciatario disimpegno, ma sull’accettazione del quotidiano anche quando si estrinseca in un umile lavoro. San Paolo (II Tessalonicesi 3,7-12) con un categorico “chi non lavora non mangi” sollecita una concreta responsabilità, senza cedimenti a fantasie collegate a paure apocalittiche che potrebbero indurre a buttare la spugna e attendere inermi la fine. Perseveranza diventa il nostro impegno a non cedere, consapevoli che a guidare la storia è Dio. Ecco perché possiamo alzare il capo e, in prospettiva, mirare la vicina salvezza, liberi di continuare a seminare speranza. Anche se a volte il raccolto va perduto, il giorno della salvezza è prossimo, basta perseverare e, vigili, afferrare la mano di Cristo.
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