Domenica 16 ottobre la parabola letta durante la Messa (Luca 18, 1-8) ha presentato la figura di un giudice che suscita la nostra risentita condanna perché non possiamo sopportare la sua indifferenza e la sua corruzione. L’insensibilità nei confronti della vedova offende; ma se quel giudice fossimo noi, sordi alla voce di chi richiede in tanti modi il nostro aiuto? Intanto, un altro passo della Liturgia della Parola sollecitava a non limitarsi di fronte alle devozioni private, ma intervenire “prima del tramonto nel sole” pregando “sul monte”, come fa Mosè nella prima lettura (Esodo 17,8-13), e saper guardare verso il basso, verso il campo di battaglia della nostra esperienza quotidiana. Perseverare riguarda l’intera vita cristiana perché, come si legge nella II lettera a Timoteo (3, 14 – 4,2), “rimanere saldi” e fedeli alla parola accolta per resistere a tutte le mode, le ideologie, le propagande che insidino il primato dell’Amore.
Il vangelo va annunciato coraggiosamente, nelle circostanze opportune e non, situazione complessa che rende attuale il quesito che lo stesso Gesù si pone: il Figlio dell’uomo troverà ancora la fede sulla terra? In cammino verso Gerusalemme, cioè verso la sua passione, Egli sembra sfiorato dal sospetto del fallimento rivelando un tratto umanissimo della sua personalità. A noi il compito di rassicurarlo circa la tenuta della fede e, almeno fino al tramonto del sole sulla storia degli uomini, mantenere alzate le mani in atteggiamento di preghiera, nonostante l’inevitabile stanchezza, perché solo a queste condizioni potremo vedere il domani glorioso.
Il pericolo della stanchezza incalza, proprio per questo dobbiamo scommettere costantemente su Dio, come la vedova della parabola, dignitosa e indomita malgrado il giudice non intenda rispondere alle sue richieste. Ella rappresenta orfani, donne sole, poveri, i veri prediletti di Gesù; non si arrende, fornendo un esempio di solida fiducia in Dio. Con la sua fede orante abbatte ogni ostacolo e grida il proprio no alle ingiustizie e si apre a nuove opportunità perché, tramite la preghiera, percepisce il respiro di Dio che scorre nell’uomo e sull’intera comunità, ossigeno di speranza che concretizza la salvezza in una costante esperienza di amore.
Le mani alzate di Mosè rivolte verso l’alto sono vuote, ma sono il segno di una preghiera costante. Egli sente anche la stanchezza, ma è in compagnia, l’aiuto degli altri gli consente di continuare e perseverare nella vittoria sul male perché capace di coinvolgere Dio nella propria vicenda. Il Signore non è però al servizio di ogni desiderio dell’uomo, egli risponde soltanto quando si sollecita il bene, mentre la domanda di grazia non é efficace se è fatta per esaudire interessi egoistici. Perciò si prega con le mani alzate, un modo per rendere ben visibile la limpidezza delle intenzioni. Non si tratta di battagliare contro qualcuno, ma d’impetrare per l’uomo la giustizia e una retta coscienza. La preghiera non é fuga dalle responsabilità; le mani non si sollevano verso il cielo perché la terra ci fa ribrezzo, ma perché decisi a cambiare in meglio il mondo. Si prega per impegnarsi e attingere il coraggio necessario e le mani alzate indicano la nostra capacità di resistere, il desiderio di coinvolgere altri invitandoli, quando il dubbio ci assale, a sostenere con le loro le nostre mani. Ecco perché Dio farà prontamente giustizia, ricordando di dare il vero significato all’avverbio prontamente: non fa riferimento al tempo dell’esaudimento della richiesta. Gesù non lo intende come un sinonimo di subito, ma esplicita la certezza insita nella preghiera: Dio è presente nella nostra storia e interviene per il nostro bene quando ritiene opportuno.
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