Tra l’antica Via Porta di Mare, meglio conosciuta come Pietra del pesce, e il vicolo delle Colonne vi è il Vicolo Guaiferio, principe longobardo di Salerno dall’861 all’880. In quello stretto percorso era lo storico Teatro San Genesio (già Il Sipario), fondato dai compianti Sandro Nisivoccia e Regina Senatore, coppia sul teatro della vita e in quello di recitazione al quale, con passione e fatiche, hanno formato e indirizzata tutta una generazione di attori salernitani.
Un vicolo, quello del Principe, quasi al riparo dai grandi traffici della movida di oggi, silenzioso come la storia di Salerno e che a tratti viene riscoperta da autori di libri, architetti o fotografi, come Corradino Pellecchia e Franco Siano che hanno allestito la mostra “Sulle orme di Guaiferio”, scatti rubati a quel dedalo di vicoli, strade, slarghi, piazzette che formano i luoghi della città antica (qualcuno ebbe la spudoratezza di chiamarla “vecchia”), dove l’uomo di oggi ha il privilegio di vivere nella storia.
Via Masuccio Salernitano, Via Mercanti – quella degli orefici – le Botteghelle con la sequenza in salita dei negozi, le Fornelle, storico quartiere dove esistevano forni di pane e di ceramica, Via Radeprandi (e si ritorna ai longobardi) luoghi che sono stati percorsi dai due fotografi per guardare, scattare una foto, momento di impatto emotivo, nonostante si conosca già quell’angolo di quartiere inquadrato.
Mario dell’Acqua, architetto e autore di uno studio pubblicato con il titolo “Le torri di Guaiferio”, in un pieghevole che accompagna la mostra di Pellecchia e Siano, allestita nei templari spazi del FAI in Via Portacatena, scrive: “Le immagini proposte sono il risultato del lavoro di camminatori sempre alla ricerca di un appagamento dello sguardo. Il camminatore guarda e cammina, torna a casa con gli occhi pieni di immagini, ma anche con la piccola macchina digitale piena di fotogrammi che, dopo l’uso, sparisce in una tasca. Bisogna muovere gli occhi: la prima vera ricerca fotografica di città si compie con lo sguardo. E’ necessario alzare gli occhi, abbassarli, socchiuderli per cercare lo scorcio rivelatore o il dettaglio appagante”.
Un percorso dell’anima, una città mentale si schiude così all’occhio da tempo allenato a inquadrare scorci come fa Francesco Siano o particolari di un insieme già visto come fa Corradino Pellecchia. E quelle 32 foto, da guardare e da meditare nel silenzio della personale solitudine, che i due “camminatori” hanno esposto in sequenza sono, ancora una volta, tessere di un mosaico da ricostruire un po’ alla volta, di una città con gli abitanti diventati silenziosi. Il chiasso appartiene ormai alle frotte di turisti che si riversano per queste vie antiche, strette negli invernali giorni delle “luci”. “La Salerno della mia infanzia – dice Pellecchia – è andata via con il progredire della città. Non vi sono più le donne che parlottavano da un balcone all’altro: ora stanno avanti al televisore; non vi sono più i ragazzini che nello slargo giocavano a pallone: ora sono sul divano con i tablet. Ed ora nel centro storico si intravedono poche borse della spesa… vi sono solo valigie che camminano”.
E la mente va ad un trascorso di decenni, quando i due fotografi camminavano per le strade della provincia salernitana alla ricerca dei luoghi della festa, di volti intenti al lavoro, delle mani impegnate nella fatica artigianale, dei gesti e degli oggetti della quotidianità, delle sagre paesane, della religiosità e dei riti carnascialeschi, dell’anima e dell’essenza di una collettività e delle sue tradizioni. Dice Corradino: “A volte capitava che il nostro interesse venisse catturato da quella variegata umanità che incontravamo: allora posavamo le macchine e ci mettevamo ad ascoltare quelle storie incredibili, che ci aprivano ad un mondo a noi sconosciuto”. Era un mondo magico ormai scomparso, ma consegnato al ricordo di chi viene dopo con pubblicazioni come “Le botteghe degli artigiani” e “Sulle orme di Pan” reportage nei paesi del Vallo di Diano e del Cilento dove allora ancora si costruivano le zampogne.
La mostra di oggi al FAI ci riporta nel cuore antico di Salerno: interni di cortili sempre chiusi, l’arco di Palazzo Pinto ad affaccio sullo slargo dov’era la vecchia Tipografia Jovane, un sipario s’apre su Largo dei Barbuti, il campanile del Duomo a far da sfondo ad una sequenza di archi, una cassetta solitaria della posta con lo stemma sabaudo, esempio di tenace resistenza al cambiamento. E’ una città antica che si mostra sempre nuova a chi, con animo libero e umile la percorre in cerca di tracce di una storia senza fine, da leggere nei suoi vari aspetti (architettonici e urbanistici, religiosi e sociali), nei suoi cambiamenti, nelle diaspore e nei ritorni in quei luoghi di vicinato che già furono cari al poeta Alfonso Gatto, nato in quel vicolo delle Galesse a ridosso del prestigioso Sedile del Campo.
Ricordava Gatto: “…e la Dogana Vecchia, il Vicolo Pacini quasi tutto coperto, buono per i giorni di pioggia, furono le mie vie tra scuola e casa: poi i Barbuti, e le Botteghelle, la Cassavecchia verso il Duomo, sino al vecchio teatro e a San Benedetto, mostrarono all’adolescente i luoghi ove egli si trovò incamminato a scoprire il tempo”.
Un tempo passato, antico, che Corradino Pellecchia e Franco Siano hanno fotografato in quello che la città ancora offre alla scoperta dei camminatori.
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