Gesù è sempre in viaggio per incontrare l’uomo e salvare l’umanità. Domenica scorsa il vangelo di Luca lo presenta mentre s’imbatte in un gruppo di dieci uomini ormai senza futuro, segnati dal dolore di chi non può avere relazioni ed è condannato a vedere cadere, con la pelle e con i muscoli, ogni prospettiva di vita. Di fronte a questa icona del dolore Gesù non attende una richiesta di aiuto, subito accarezza con il timbro suadente della sua voce. I dieci ricevono un invito: andare dai sacerdoti secondo la prescrizione, perché solo loro possono ufficialmente dichiarare che son guariti. I lebbrosi manifestano un primo barlume di fiducia nelle parole ascoltate obbedendo, anticipazione della sospirata guarigione. A questo punto entra in scena il samaritano e sorprende tutti perché rappresenta l’evidente sconfitta degli stereotipi: i non religiosi a volte sono più pronti a prestare fede di chi è inserito a pieno titolo nel popolo eletto. In effetti, il samaritano ha sperimentato che il rito al quale si è sottoposto gli ha restituito a pieno titolo l’integrazione sociale, non sarà più considerato un paria maleodorante. Ma non si ferma a questa considerazione, non si fa distrarre dalle apparenze immediate, comincia a riflettere e si pone la domanda: chi ha operato in me meraviglie?
Il tema di fondo è la salvezza operata dal Signore, che non conosce confini razziali, sociali, politici, culturali; infatti, sia nel brano del II libro dei Re (5, 14-17), sia nel Vangelo (Lc 17,11-19) é presentata come guarigione concessa allo straniero, nel Vangelo addirittura a un nemico. Naaman, un ufficiale assiro lebbroso, viene attirato dalla fama del profeta Eliseo, dal quale si aspetta chissà quali riti per essere liberato dal male. Invece si sente dire solo di lavarsi nel Giordano, certamente un fiume non paragonabile a quelli maestosi della sua patria. Eppure ubbidisce e così il prodigio si compie. Il militare diventa l’incarnazione del vero credente: trasporta in Assiria sacchi di terra palestinese da spargere sul suolo patrio per avere la sensazione di vivere nella terra promessa ora che si è convertito all’unico Dio.
Il Vangelo, oltre alla gratitudine, invita a riflettere sulla qualità di chi vive la fede: uno straniero rispetto ai nove ebrei, per giunta lebbroso, quindi un emarginato, é il vero salvato. Gli altri, come riferisce Luca, pur se guariti mancano di riconoscenza, che non é solo un dire grazie, ma celebrare la presenza di Dio che salva. Il Signore offre a tutti la redenzione per cui nel mondo dovrebbe risuonare l’eco della gratitudine. Invece! Dio scompare e si afferma l’io con tutto il suo orgoglio.
Gesù sfida la cultura del suo tempo e il modo di trattare i lebbrosi, gli emarginati di allora. Si compromette con le leggi per diventare fermento nel mondo, compito che affida ai cristiani, amici di tutti in quanto testimoni di Dio che ama le sue creature. La fede ritrova così un moto spontaneo di alleanza, di solidarietà, di simpatia con quanto è umano, discorso facile da formulare a livello generale, difficile nel quotidiano perché se le idee sono bellissime, chi le incarna spesso le tradisce. Gesù non considera i lebbrosi impuri maledetti, ma amati da Dio, quindi raggiunti dalla salvezza. Egli li invia dai sacerdoti prima di essere guariti, così sottolinea il legame tra fede e abbandono fiducioso. Costoro ubbidiscono; in tal modo si precisa che la guarigione è conseguenza di una fiducia totale perché l’azione di Dio richiede sempre questo tipo di abbandono.
“Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono?” E’ il commento di Gesù. Cosa è avvenuto? I nove credevano profondamente nel rito, lo hanno osservato e con la coscienza tranquilla non sentono il bisogno di riflettere sul vero protagonista della guarigione, di conseguenza dimenticano perfino di dire grazie! Evidente l’insegnamento: una religione senza gratitudine non salva, un clero che rispetta alla lettera il diritto canonico e non considera la persona non sempre riesce a comprendere le esigenze degli uomini. La fede salva perché consente alla vera vita di penetrare nel nostro essere, rimarginare le ferite, ridare speranza e un nuovo inizio.
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