Aveva 93 anni Dario Poppi quando nel 1996 si lascio alle spalle, per sempre, una vita non priva di avventura, ma soprattutto ricca di produzione ceramica.
Faentino doc, si era diplomato alla Regia Scuola Ceramica di Faenza, giungendo a Vietri sul Mare nel 1927: Don Ciccio Avallone, uomo elegante e attivo imprenditore della ceramica con laboratorio nel cuore di Vietri, desideroso di poter “migliorare e internazionalizzare la produzione”, aveva inoltrata richiesta di mano d’opera al Museo della Ceramica di Faenza. E così, nel 1927, Dario Poppi, fresco di studi e stufo “del grigiore dell’inverno faentino e dell’acquerugiola di febbraio”, su indicazione di Gaetano Ballardini allora Direttore della Scuola faentina, giunse a Vietri: «è più giù di Napoli, un po’ più in là c’è l’inferno» aggiunse Ballardini adottando una frase faentina per indicare un posto molto lontano e chissà dove.
In uno dei suoi brillanti quanto illuminanti testi sulla ceramica, Eduardo Alamaro scriveva: «In quel tempo, a Vietri, si stava facendo una ceramica mediterranea nuova e sovranazionale, una ceramica europea, un nuovo racconto popolare».
Dario Poppi se ne accorse subito, appena messo piede nella faenzera, e capì che quei “ruspanti cafoni vietresi mixati dai tedeschi”, con quei loro forni ceramici “alti come case”, stavano più avanti; stavano facendo un esperimento di nuova antropologia e perciò se ne voleva ritornare subito a Faenza, col primo treno: non aveva nulla da insegnare a quei cafoni delle faenzere vietresi, anzi… Ma successe qualcosa che fece andare le cose diversamente.
Al ricordo di quei giorni, Dario Poppi raccontava: «Quando arrivai in fabbrica, don Ciccio mi presentò col suo fare da imbonitore, che assumeva quando voleva dare importanza al discorso: “Ecco il professore Dario, dell’università della ceramica di Faenza. Ora lavorerà con noi”. Poi passò a presentare i presenti: “Questo è il professore Guido Gambone, questo Michele Di Martino e questo Maestro Aniello. Guagliò porta na’ seggia p’o’ professore, là appresso a Guido” – e aggiunse – professò assettatevi, guardate come si lavora qui, poi comincerete».
Alla fine aggiunse di avergli fissato la pensione nella casa di Immacolata Criscuolo dove già alloggiava Luigi De Lerma, altro allievo della scuola faentina che lavorava nella fabbrica di Gunther Studeman.
Il giovane faentino non aveva la più pallida idea di come i ceramisti vietresi lavoravano la ceramica, ma ne fu subito affascinato, pur rendendosi conto che per lui era opera difficile nonostante il diploma della Regia Scuola Ceramica di Faenza. E ricordava: «Guido mi aiutava molto, mettendomi a mio agio… Facevo del mio meglio, ma tra la mia roba e la sua c’era un abisso che sapevo incolmabile, perché dalla mano di Guido scaturivano naturalmente, direi fluivano i motivi che aveva dentro di sé, senza aver studiato il disegno, né fatto del lungo addestramento».
Quel primo giorno di lavoro all’Avallone, al banchetto di Gambone, dove era stato destinato da don Ciccio, fu per Poppi di grande imbarazzo, sotto gli occhi scrutatori degli altri decoratori. Confessò, allora, a Gambone che proprio non sapeva cosa fare, che non aveva certo immaginato un lavoro del genere, per cui aveva deciso di ripartire il giorno dopo. Ma Gambone, capo banchetto, prese una iniziativa a favore del disorientato Poppi: disse agli altri di finire l’oggetto che avevano in mano e prendere il lavoro delle “riggiole” che, come vide dopo, si faceva in équipe. Il disegno di quella “riggiola” consisteva in un ramo a forcella in bruno chiaro e segnato col bruno scuro per dargli rilievo, varie foglie lanceolate da ciliegio, due ciliegie ed un passero dai colori vivaci, che svolazzava vicino alle due ciliegie. Michele, a stampo (leggasi “spolvero” – ndr), faceva il ramo, Poppi faceva il chiaro scuro col bruno e le foglie lanceolate usando una pennellessa piatta manovrata come le penne per la scrittura gotica; zì Aniello faceva le due ciliegie, bellissime, le nervature in nero delle foglie, e Guido l’uccelletto che svolazzava. «Non ne faceva uno uguale all’altro – ricordava Poppi – e dava loro gli atteggiamenti, i più svariati e naturali.»
Da quel momento, tra il giovane faentino e Gambone si instaurò una sorta di complicità e di amicizia sincera. Tant’è che in ricordo dell’amico Guido, scomparso il 20 settembre 1969, in una elegante pubblicazione del 1970, Dario Poppi annotava di aver voluto fissare «i ricordi di quel tempo e di quella amicizia, che hanno influito in modo determinante sulla mia vita, che, posso dire, ricominciò da Vietri».
E furono i due amici a realizzare la grande insegna commerciale “Industria Ceramica Avallone = Maioliche d’Arte = Pavimenti” che ancora oggi, con i suoi sette metri di lunghezza e un metro di altezza, in copia di originale fa bella mostra di sé sugli ingressi del negozio ceramico a fronte Piazza Matteotti di Vietri, aperta sugli smerli della Costiera Amalfitana. In una lettera del 1991, ricordando la sua permanenza alla fabbrica vietrese di don Ciccio Avallone, Dario Poppi scriveva: «Io feci il bordo che incornicia, in stile prettamente faentino (palmette e rosette) e le lettere della dicitura. Guido Gambone fece i due gruppi di piatti e vasi a colori nelle estremità».
Nel novembre del 1929 Poppi lasciò Vietri per trasferirsi a Rodi Egeo, colonia italiana, dove Luigi De Lerma, anche lui con esperienza vietrese alla fabbrica di “Fontana Limite”, lo attendeva per iniziare il lavoro alla nuova impresa denominata “Icaro”. Con loro due vi erano anche Gunther Studemann, anch’egli reduce dall’esperienza vietrese, Sophia Van Stolk, olandese, moglie di De Lerma e il pittore austriaco Hegor Huber. La tradizione ceramica locale era composta da motivi Iznik sui quali, quella pattuglia di ceramisti, innestò la personale esperienza vietrese. Il risultato fu un nuovo percorso d’arte ceramica improntato ad una diversa sperimentazione mediterranea.
Ma il trentottenne faentino non si lasciò scappare l’esperienza africana: nel 1941, infatti, andò in Etiopia, direttore di una segheria legata all’Impero, e non si fece mancare una breve, ma intensa storia d’amore con la giovane e bella principessa Zannabec, moglie di un ministro del Negus, situazione certamente complicata. Dopo una lunga serie di vicende – raccontate nel libro-diario “Fucili a salve” – che lo videro persino attore di prosa nella compagnia di Nella Poli, nel 1945 ritornò nel mondo della ceramica, incaricato dal Ministro dell’industria e Commercio dell’Etiopia, per conto dell’Imperatore Hailé Selassié, di istituire il reparto ceramico alla scuola industriale ad Addis Abeba.
Poi il suo ritorno a Faenza, continuando ad occuparsi di ceramica sino alla fine, tenendo ben stretto nel suo intimo, il ricordo degli anni trascorsi a Vietri, alla fabbrica di don Ciccio Avallone, accanto a Guido Gambone, uno dei più grandi maestri della ceramica italiana.
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