L’incontro di un pannello ceramico sulla facciata di un palazzo o con un pavimento nel chiuso di una casa sono segni intelligibili a distanza che per lungo tempo hanno caratterizzato un artigiano che si faceva artista e rifletteva infinite cromie, cercate nei suoi meditati silenzi serali. Ed è subito l’immersione in un mondo che da lunghi anni ci accompagna in un immaginifico viaggio che sa di Costiera Amalfitana, ma anche di fede cristiana, di un sentire intimo, antico reso moderno da tratti cromatici di ritmica scansione.
E’ il mondo in cui si muoveva Giovanni Cappetti, meglio conosciuto come Giancappetti, definito “attento signore del fuoco” o, se vogliamo, “signore della ceramica”, uno stile, un modo di essere che per essere compreso non si ha bisogno di spiegazioni in catalogo per ogni singolo oggetto da lui realizzato, perché adoperava un vocabolario immediatamente comprensibile da tutti.
Non basta un approccio per dire di Giancappetti: in lui vi è l’artigiano che operava negli spazi della sua ultima fabbrica-laboratorio di Pagliarone dove ri-leggeva e ri-tracciava i segni del passato per una committenza che dava a lui e ai suoi collaboratori il modo di vivere, e vi è l’artista che, per non morire, nel ristretto di una stanzetta, all’ombra di una lampada creava i colori del silenzio…
E vi era Giannino Cappetti che si abbandonava alle meditazioni, alla memoria della fede dei suoi genitori, dell’infanzia, degli anni di studio, della maturità e degli anni della saggezza per poter interpretare, dal fondo del suo animo, la soavità di un viso di Madonna, ma anche la fede in un mestiere dove il sudore non sempre è dovuto al calore del forno, ma a volte anche al freddo della paura, delle preoccupazioni, delle salite difficili.
Nel catalogo alla mostra del dicembre 2002 “Le stelle sopra di noi” fu dedicato una sezione speciale a Giancappetti; nel testo specifico si legge: «…inventa sguardi che sanno di cielo e di eternità; i suoi pennelli distribuiscono colori eterei, anticipatori di infinite dolcezze in stretto rapporto con una spiritualità vissuta… La mano ferma, nonostante gli oltre ottanta anni, traccia segni non comuni, non solo per antica esperienza di dominio della materia, ma per un sentire altrove di…versi fraseggi». E le sue non sono Madonne paragonabili ad altre, sono soltanto e semplicemente le Madonne di Giancappetti, con le sue spirali, i suoi ovali oblunghi, le sue dipinture “at penna di paone”.
Già, le Madonne di Giancappetti, che lui studiava per realizzare, ogni anno, una Madonna diversa, affascinante, dolcissima, che non ha un nome se non quello di origine: Maria. Un lavoro attento, preciso, passionale ricordando gli amici ai quali regalare quell’oggetto di fede, per farsi ricordare nella memoria del tempo. “Non ho mai venduto una madonna, – diceva Giancappetti – perché queste immagini non si commerciano, ma si donano”.
Quanta maestria in quelle mani incrostate di creta, di macchie colorate, di fatica con le quali dava alla materia i colori del creato! Ogni gesto era misurato, semplice, ma corrispondeva ad un tragitto dell’anima, ad una idea dello spirito, ad una esigenza della quotidianità. Rame, manganese, cobalto, stagno, piombo, essenzialità di cromie, di lucentezze, di durezze, predisposte a durare nell’abbraccio capriccioso del fuoco.
E ritorna la Costiera Amalfitana in quelle riggiole a dominio di barche, di notturni in anse di costa intrise di romanticismo e di poesia. «Erchie e la carnale, il riflesso di lampare, il fiordo di Furore / al vergine decoro della “Costiera Addormentata”» scriverà il poeta Enzo Tafuri in “Respiro d’azzurro” dedicata al maestro ceramista. E fu il faro di Capodorso dove lavorava il padre, le cupole delle chiese di Cetara e di Positano, il Castello di Arechi, il Fiordo di Furore, le lampare a dominio di notturno, le sirene con le code a scandole di religiose coperture, la manciata di case di Erchie dove trascorreva il tempo dell’estate tra i gozzi dei pescatori e i tramonti sul mare.
Era il 26 agosto del 1928 quando Giovanni Cappetti venne al mondo in un appartamento del Centro Storico di Salerno, quello “sopra la cantina del vino di D’Acunto, nel quartiere delle Fornelle” amava ricordare.
Fu Mario Avallone ad averlo come allievo di pittura, poi il professore Brancaccio gli insegnò il disegno e la scultura l’apprese da Peppe Pierro, scultore salernitano quasi dimenticato, anche se era stato lui a realizzare gli altari barocchi nelle chiese di Salerno. Ma fu il maestro Renato Rossi ad avviarlo alla ceramica.
«Avevo dodici anni quando cominciai a spiare i corsi di ceramica del maestro Renato Rossi, in quei locali a pianterreno dell’attuale Istituto Barra a Salerno, che allora ospitava l’Istituto Trani» ricordava con non poca soddisfazione nascosta dietro un sorriso non di cortesia ma di abituale serenità. Poi, aggiustandosi gli occhiali perennemente fissati sulla fronte, aggiungeva: «Il maestro Rossi si accorse della mia presenza e mi fece entrare, invitandomi a decorare il mio primo pezzo: fu una ciotola sulla quale tracciai motivi geometrici» Iniziava così un cammino che non sarebbe più cessato, nonostante le importanti esperienze grafiche torinesi con Mario Grossi.
Dopo l’esperienza con Rossi, fu il Liceo Artistico di Napoli e poi gli studi di lettere, filosofia teorica ed architettura presso l’Ateneo partenopeo.
Sessant’anni di attività continua quella di Giancappetti, con mostre in Italia e all’estero e suoi lavori sparsi un po’ ovunque in chiese e residenze private. Passo dopo passo, il maestro ha costruito la sua strada “dans le soleil mediterranèe”, per richiamare una felice esposizione parigina al Trianon de Bagattelle, dove l’artista stupì i visitatori portando una perfetta ricostruzione di un maiolicato sedile del giardino di Santa Chiara a Napoli.
Le opere che, però, stavano maggiormente a cuore al maestro è quell’Albero della Sapienza raffigurato nel pannello collocato nell’aula delle lauree alla Pontificia Università “Angelicum” di Roma, e il pavimento dell’altare del Nuovo Seminario di Pontecagnano, nonché, il pannello con sei figure di camici bianchi con le mani alzate in un’atmosfera rosso-sangue collocato all’Ospedale di Sarno, omaggio ai sei medici morti sotto la frana che distrusse buona parte del paese.
Alla luce di una lampada disegnava i suoi santi e le sue madonne, inventava sguardi che sanno di cielo e di eternità; i suoi pennelli distribuivano colori eterei, anticipatori di infinite dolcezze in stretto rapporto con una spiritualità vissuta. Era straordinario Giovanni Cappetti, nella penombra della sua stanza dell’ampio capannone-laboratorio, di fronte ad una riggiola da decorare. Nel silenzio della sera, amplificato nell’isolamento del luogo, lo spirito dell’artista quasi fluttuava nel vuoto dell’oscurità dove ombre di caselle refrattarie erano allineate per il viaggio nel tunnel del forno da cui uscivano con la loro lucida eternità. E la mano ferma di Giovanni Cappetti, nonostante gli ottantasei anni, tracciava segni non comuni, non solo per antica esperienza di dominio della materia, ma per un sentire altrove di…versi fraseggi.
Era un freddo giorno di gennaio del 2014 quando Giovanni Cappetti abbandonò questo mondo, lasciando poggiati sulle ciotoline dei colori i pennelli a punta rasa con i quali rubava le cromie ceramiche alla terra madre e al cielo infinito.
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