Mentre siamo intenti a leccarci ferite di varia natura, postume agli eventi eccezionali degli ultimi anni – la pandemia – le guerre – il tentativo in atto di ridisegnare la geopolitica internazionale, ci si dirige in un solco ulteriormente sospeso. È ovvio, c’è scetticismo e molte cose non si possono prevedere se non con le sfere di cristallo che sono il solo prodotto di fantasie filmiche, ma si può ancora credere a qualche rinsavita popolare? Al di là dei processi politici e culturali, si ritiene necessario e fondamentale, tirare pragmaticamente delle somme e “armarsi” di buon spirito, cercando di capire a fondo i dogmi e gli errori che hanno interessato questa terra. Con questo intento, ora, un excursus storico sulla “questione meridionale” vien d’obbligo in opportuna sede, d’altronde – capire chi siamo e da dove veniamo è essenziale per sapere dove andare – il Cilento ne è stato particolarmente coinvolto. Quindi, estrarre da esse tutte le considerazioni del caso, dovute, ma cercando di relativizzarne le analisi ad elementi contemporanei, maldestramente inglobati e farneticati dal lussurioso abbaglio della cultura di massa con cui la sub regione è costretta a misurarsi, nonostante la sua singolare e dislocata realtà. Tuttavia quest’ultimo dato di fatto è stato anche adeguato in ottica positivistica come la più grande opportunità, se ne parla da quando vi è stata – 1991 – l’istituzione del parco nazionale, un grosso vantaggio al cospetto della frenesia temporale delle metropoli, le condizioni climatiche favorevoli all’agricoltura biologica, la bellezza naturalistica, incontaminata e il giusto connubio morfologico tra mare e monti. Sarebbe bastato? Avrebbe creato indotto la sola certificazione? Col senno di poi, no. La tendenza degli ultimi decenni si è adeguata soltanto a questo, nel tentativo di affabulare i “knowhows” dei progetti inerenti alle strategie territoriali di sviluppo e occupazione, senza una corrispondenza significativamente reale, basti osservare i dati dello spopolamento. Agli occhi critici di qualche osservatore attento, risulta scontato accorgersi di essere stati parte, nei tempi recenti, di un upgrade di quella condizione socio-economica che interessò tutto il meridione nella fase post unitaria. E come smentire il remake? Si è sempre sorbita l’influenza della lungimiranza personalistica di pochi eletti, si è in possesso anche del contrassegno dalla storia – i Borboni definivano il Cilento “terra dei tristi” – una vecchia pellicola spacciatamente rimessa in uso, un film già visto, quello del diktat psicologico, del disagio, esternato con i luoghi comuni più consueti e d’animo rassegnato. Il gettito della malora e dei lamenti perpetui ai quali si è abituati bene. Come voltare pagina? Dopo anni di storia, di deterioramento del tessuto collettivo, incline, a sua volta, a sviluppare in piccolo il proprio orticello, sembrerebbe cosa ardua e poco consona cedere alle semplificazioni o sintesi di ogni genere senza fornire, lo spunto attento di una rilettura sociologica accurata e acquisire finalmente i contenuti che la stessa storia, nostro malgrado, ci ha consegnato.
C’è la necessità di percorrere una strada nuova, che si vesti di percorsi originali, sdoganati dalle regole di mercato comuni e questo si è sempre affermato nei tanti convegni a tema, ma alcune forti caratteristiche antropologiche, radicali e radicate, continuano ad impedire l’impenno e al superamento di alcune barriere. C’è bisogno di aperture e cooperazioni e farle con l’aiuto delle sfumature identitarie in termini di ricchezza dei patrimoni culturali, ad oggi, semiabbandonati anche per mano delle passività degli stessi abitanti, complici insieme alle varie classi dirigenti succedutosi, di un degrado traslato in apparenze di facciata. Diciamoci pure la verità, sono i “numeri” il problema? Assolutamente si, ma se il giocar forte con l’omogeneità d’intenti ha sempre raccolto i suoi frutti, perché non si è mai considerato il fatto, in un territorio già poco popolato, di intraprendere dei percorsi nel porre rimedi al seguito di rilievi sociologici che mostrerebbero una scarsa attenzione nel consorziare – per davvero – idee e progettualità? È inaccettabile osservare residui di campanilismo in queste “chiarezze lunari”. Eh si, il rischio di una folkloristica autodistruzione nel proprio isolamento esiste ancora. Fortunatamente sulle linee guida dei “piani di zona” gli strumenti a disposizione per cercare di equiparare i territori su interessi comuni esistono eccome ed andrebbero utilizzati per bene, ponendosi come obiettivo non solo i raggiungimenti gestionali, di normali prassi amministrative, ma soprattutto al riscontro di una responsabile mobilitazione sociale che includa le nuove generazioni poco coinvolte dalla causa d’appartenenza, nella vita sociale e perché no, dall’attivismo politico. Occorre smaltire in fretta la stagnante propensione, recuperare il tempo perso e accelerare le istanze, ricordando che l’apparato democratico viene scosso se partecipativo. Pertanto aver accettato questo stallo funzionale la cosa più evidente è che nel complesso il modello è fallito ed ha generato soltanto decrescita, non solo culturale, ma anche demografica. Si riuscirà prima o poi a vedere la luce fuori dal tunnel? Intanto spazio alla creatività, all’inclusione, alla cultura, alla conoscenza. Mi si conceda il lusso di una citazione: “in direzione ostinata e contraria”.
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