Presentato a Teggiano, nella Chiesa di San Marco, il libro di Cono Cimino (ufficiale dei Carabinieri in pensione con la passione per il dialetto) “Ni sìmu rufriscati a la cìbbia ri la Sinacòca! Cundi e versi in vernacolo teggianese”. Dopo il saluto del parroco don Angelo Pellegrino e del sindaco della città, Michele Di Candia, sono intervenuti il consigliere Regionale Corrado Matera, il giornalista e scrittore Geppino D’Amico e due teggianesi doc, il dialettologo Vincenzo Andriuolo, autore di alcune importanti pubblicazioni sul dialetto teggianese e della prefazione del libro, ed il Preside Emerito Salvatore Gallo, che ha scritto la postfazione. Il ricavato del libro, che l’Autore ha stampato a spese proprie, sarà interamente devoluto all’Associazione no profit “Una speranza onlus” di Sala Consilina.
Nel corso del suo intervento il consigliere regionale Corrado Matera ha annunciato un’iniziativa tendente alla valorizzazione del patrimonio culturale regionale per promuovere e favorire la
conservazione e l’uso sociale dei beni culturali linguistici, etno-musicali e delle tradizioni popolari, con particolare riguardo alla salvaguardia ed alla valorizzazione del patrimonio linguistico. In proposito ha ricordato che la Regione Campania, aderendo a quanto affermato nell’articolo 5 della Dichiarazione Universale dell’UNESCO sulla diversità culturale, adottata a Parigi il 2 novembre 2001, che riconosce ed incoraggia come un valore la diversità linguistica ed il patrimonio linguistico e culturale del proprio territorio, nel luglio 2019 ha approvato la Legge Regionale n. 14 (“Norme per la salvaguardia e valorizzazione del patrimonio linguistico napoletano”). Partendo da tale base, ha affermato Matera, sarà possibile inserire l’intero territorio campano.
Per quanto riguarda il libro, considerato l’aspetto antropologico che l’Autore propone con i suoi cunti, appare evidente il rapporto con la propria terra. Nella tradizione linguistica dialettale un elemento importante è dato dalla connessione con altre lingue, frutto delle varie dominazioni che il Sud, e quindi il Vallo di Diano e il Cilento, hanno subito nel corso dei secoli: Greci, Lucani, Romani, Arabi, Spagnoli, Inglesi, Francesi. E questa connessione esiste e resiste anche a Teggiano dove parole di origine greca e araba sono ben presenti. Fortunatamente, nel Vallo di Diano non sono mancati autori che hanno utilizzato il dialetto. Per quanto riguarda Teggiano vanno ricordati Nicola Marmo e Gaetano D’Elia nella seconda metà dell’800 e, in epoca contemporanea, Arturo Didier, Vincenzo Andriuolo, Rocco Cimino, Enza Morena e lo stesso Cono Cimino. Di Nicola Marmo, merita di essere citata la Storia ri Santu Conu. Gaetano D’Elia ci ha lasciato i famosi Friseddi in carajesima, recentemente ripubblicati e commentati da Vincenzo Andriuolo. Senza la stampa dei loro versi oggi non avremmo contezza del dialetto teggianese autentico che ha regole ben precise e spesso ignorate. Grazie a coloro i quali hanno scritto in vernacolo è stato evitato quello che con una felice espressione è stato definito “il genocidio dei dialetti a causa della globalizzazione”. I loro scritti acquistano maggiore rilievo nell’epoca attuale in quanto le nuove generazioni usano sempre meno il dialetto dei loro nonni e ne eliminano i tratti più arcaici. Nell’800 il vernacolo veniva parlato dal contadino ma anche dal notaio e dal medico. Oggi, invece, racchiude una separazione di ceto sociale e la sua area si va restringendo sempre di più.
Nel libro di Cono Cimino troviamo aspetti e personaggi diversi della vita del passato. Come già anticipato, uno dei più importanti è l’aspetto antropologico legato a riti antichi, superstizioni, scaramanzia, incantesimi e maledizioni, sacro e profano legati in maniera viscerale e parte della tradizione delle popolazioni del Mezzogiorno. Una delle sorprese più interessanti del libro è proprio il rapporto con i defunti, a volte diretto a volte tramite intermediari o attraverso i sogni.
A Teggiano esiste un detto che recita: “tutt’i feste ijessene e venessene, ma Pasqu’ebbifanija mai venesse”. Questo racconto spiega il motivo per il quale, nella notte tra il primo e il due novembre, si lasciava la tavola imbandita con vino, pane, acqua, ago e filo, oltre al giaciglio preparato in previsione di accogliere i defunti che, in quella occasione, tornavano a trovare i propri cari. Se le vivande servivano per rifocillare i morti, l’ago e il filo servivano per rammentare i vestiti lacerati nell’attraversamento della Valle. Anche nel Vallo di Diano si cerca di instaurare un rapporto con i defunti, a volte diretto e a volte tramite intermediari. Il tema è ben presente nei “cunti” di Cono Cimino.
In particolare, in Stellarianu si ricorda la morte di Filucciu: durante una veglia funebre, ‘ndramèndu trasìa lu tavutu, una donna pensa di potersi servire del defunto e inizia una vera e propria litania per mandare i saluti alla madre Sandina ed al fratello Runatu, deceduti da tempo. L’insistenza ed il fastidio sono tali che Minucciu, un parente del defunto, spazientito le dice: “Ngièri ca ngièri putivi fa na mburnàta stummàtinu // Accussì ‘ngi mannavi nu pìzzu càuru e nu pòcu ri luvatìnu”. Non meno interessante è Lu gravàndulu nel quale troviamo u’ munaciello, l’esorcista, la fattucchjara, la mahàra e lo spiritello maligno e dispettoso, magari non battezzato che, però, poteva avere risvolti positivi come dimostra il vecchio adagio teggianese: “Si l’angappi e ti fai dire dov’è il tesoro diventiamo ricchi”.
A dimostrazione della versatilità di Cono Cimino va citata la poesia composta al termine della presentazione del libro e riguarda proprio il modus narrante del dialetto: “Na vota firnuta riciti na ciutia, // la prima ca vi veni, senza fantasia. // Ma ricitila bbona e nu ‘ngacagliati // Sinonga vi seccàni li zarelli quàannu vi li grattati”. Come dire? Bisogna fare attenzione nel trattare certi argomenti quandi non si è in grado di farlo.
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