È il titolo del saggio stampato lo scorso marzo che mons. Giuseppe Mani, arcivescovo emerito di Cagliari, ha avuto la bontà di inviarmi. Ho appreso che copia del volume è stata spedita a tutti i vescovi emeriti per sollecitare commenti e alla quasi totalità dei presuli della CEI. Nella lettera di accompagnamento al plico egli afferma che la pubblicazione è un contributo al Sinodo in atto. Le riflessioni proposte sono il frutto della sua pluriennale esperienza di padre spirituale, di rettore e poi di vescovo. Egli le ha elaborate senza nascondere la verve tutta toscana di salace chiarezza. Parte dalla considerazione che la Chiesa ha sempre riconosciuto che chi comanda deve essere il migliore per domandarsi se oggi sia ancora possibile scegliere i migliori; non si nasconde le molteplici obbiezioni, non ultima che mancano personalità.
Egli affronta in modo sintetico rilevanti problemi per la prassi in atto di considerare un dovere morale le dimissioni del vescovo a 75 anni e della nomina novennale dei parroci per un efficientismo burocratico che stride con la portata ed il significato del munus episcopale e della pratica pastorale del prete in parrocchia; infatti chi è nominato ad tempus si trasforma in funzionario non in padre, come si legge a pagina 41. L’autore valuta anche le conseguenze, da lui ritenute nefaste, della riarticolazione delle metropolie. Si è adottato il criterio civile delle regioni, decisione improvvida che non ha considerato il tormentato dibattito ed i rilievi che lungo gli anni hanno formulato esperti geografi, storici e politici su questo argomento. Ad esempio, la metropolia campana riassume in sé tutti i problemi rimasti irrisolti aggiungendone degli altri legati alle irrisolte problematiche sociopolitiche e cultural-religiose di Napoli. Rispetto a questi complessi argomenti, ad attrarre l’attenzione è il ragionamento proposto per giustificare il titolo del saggio. Infatti, mons. Mani ritiene che chi è scelto vescovo non può concedersi le dispense dalla preghiera e dall’insegnare a pregare, da incontrare persone, da amare veramente i suoi preti prestando attenzione al tenore e al livello di vita che conducono; né può dispensarsi dallo studio, dall’avere coraggio e da un cuore umile.
Egli sviluppa le sue argomentazioni evidenziando innanzitutto il diritto dei fedeli di avere un presule che preghi e sappia insegnare a pregare alle famiglie, ai giovani e ai bambini manifestando il dono del discernimento per riconoscere dove c’è Dio e dove non c’é. Ne deriva che non può dispensarsi da esaminare le modalità e la tipologia della sua presenza tra la gente, che non deve limitarsi all’amministrazione delle cresime durante qualche festa perché essenziale è il modo di incontrare e di rapportarsi con le persone.
Parroco dei suoi preti, egli deve essere consapevole della responsabilità della loro vita interiore, sua prima preoccupazione in una diocesi che voglia distinguersi per una gestione familiare, il meno possibile burocratica. Ne consegue che l’amicizia tra vescovo e parroco diventa essenziale. I preti non sono dipendenti dell’ordinario ma collaboratori, senza di loro il vescovo non può far niente. Ma una delle difficoltà è data dal fatto che i preti hanno paura del vescovo e non possono aiutarlo col consiglio sincero praticando la parresia del confronto, anzi non è raro che il rapporto diventi di ostilità (p. 42). Perciò mons. Mani raccomanda al vescovo di vigilare su se stesso perché non si annidi nel cuore la rabbia che potrebbe muovere alla vendetta (p. 45), invece deve sempre rammendare che anche sacerdoti ostili sono suoi figli da recuperare perché “La Chiesa non ha nemici, ma avversari che devono diventare amici”, come osservava il cardinale Casaroli. Essere padre, fratello e amico dei preti non è facile, ma certamente indispensabile per far sentire il calore dell’accoglienza spirituale perché il vescovo è chiamato ad esercitare non un potere giuridico ma pastorale. A questo proposito l’autore consiglia di avere a disposizione dei libri di preghiera, di meditazione e di studio adatti per i preti, di cui conosce il livello culturale, e soprattutto libri che si lascino leggere, anzi che invitino a farsi leggere, e regalarli quando i preti vanno a trovarlo. Per mons. Mani sono i denari meglio spesi.
Il presule deve essere anche l’animatore culturale, il mecenate della diocesi. La cultura non è semplice conoscenza, notizia, ma assimilazione, appropriazione, quindi prima attenzione deve essere per i sacerdoti a cominciare dal seminario, ricordando che ciò che questo istituto non è capace di dare non può essere più recuperato. Con una chiarezza di espressione che sfiora l’irriverenza, l’autore scrive “Il vescovo non deve aver paura dell’intelligenza di nessuno ma preoccuparsi di educarla con studi seri e profondi. Niente peggio di intelligenze frustrate e prive di adeguata formazione” (p. 70). Perciò, nella pagina seguente continua “se i preti devono essere colti, Dio liberi le diocesi dai vescovi ignoranti che addirittura vedono nella cultura un pericolo mentre spesso è solo invidia e chiusura mentale”. Per questo motivo l’autore propone di ristabilire l’esame per l’episcopato come nei secoli passati quando, prima dell’ordinazione, il prescelto doveva sottoporsi ad una sorta di esame di abilitazione, prassi che mons. Mani ritiene molto utile perché – annota con una evidente punta di sarcasmo – “servirebbe almeno a far studiare quelli che desiderano diventare vescovi che non sono pochi” (p. 65).
L’autore auspica che il presule superi “la difficoltà nel trattare con persone superiori a lui per cultura o per tradizione familiare soprattutto valorizzando le doti di tutti a vantaggio della diocesi. “La tentazione di umiliare gli altri per dire che sei superiore a loro è meschina e stupida, ma non sempre aliena dall’agire di qualche superiore”. Gli aggettivi usati a pagina 90 sono molto forti, ma le conseguenze di un atteggiamento episcopale siffatto certamente più gravi. In effetti, se la figura del vescovo appare come di uno che comanda, in realtà egli ha solo il potere dell’animazione, che diventa il suo impegno più pesante e l’unico suo modo di agire.
L’ordinazione episcopale non assicura un carattere stabile, onestà perfetta, delicatezza del cuore, per cui occorre irrobustire la coscienza. Da qui l’opzione decisa per la mitezza e l’umiltà, sinonimo di vera intelligenza e somma saggezza per tutti gli uomini. “Grande è colui che ha l’umiltà di sapersi far consigliare, di non prendere mai decisioni senza prima aver ascoltato con attenzione e desiderio di imparare”, si annota a pagina 112. Le modalità di svolgimento della funzione non presuppongono neutralità o difesa della legge, ma propensione alla profezia in un atteggiamento di umiltà per cui il vangelo diventa realtà e testimonianza.
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