Si riapre il santuario del Sacro monte, riprendono i pellegrinaggi, si ripropone un antico rito che ha attraversato culture e religioni perché da sempre il luogo è stato considerato “il monte del dio”. Ad animare la devozione per la Vergine sono stati soprattutto i monaci orientali che, fuggendo dalle persecuzioni, portarono il culto della Odighitria, la vergine che indica la via, un’ascesa di purificazione per incontrare Dio. La loro presenza ha segnato in profondità l’identità di un popolo e di una regione, un intreccio che può essere descritto analizzando le vicende dell’abbazia di Pattano grazie ai dati di due platee conservate nell’archivio dei Pignatelli di Monteleone, commendatari di S. Maria. I documenti completano quanto era già noto con la visita di Chalkéopoulus. Allora si procedette alla soppressione del cenobio, assegnato in commenda ad una delle famiglie più potenti del Regno: i Carafa. Per alterne vicende il complesso passò ai Pignatelli e tra questi signori si segnalò Ettore, il quale s’impegnò a rilanciare la santità italo-greca per utilizzare i circuiti religiosi col fine di consolidare la commercializzazione dei prodotti serici. A questo scopo incentivò alcune fiere ponendole in relazione al santuario di Novi. La tormentata storia del casato costrinse ad alienare la Baronia, ma i Pignatelli non cedettero i diritti sull’abbazia di Pattano, classificata bene burgensatico, quindi patrimonio di famiglia.
Questi dati aiutano ad amalgamare il radicamento socio-religioso di tanti centri e le due platee consentono di ricostruire il paesaggio. Dall’agricoltura intensiva intorno all’abbazia, con giardino mediterraneo e arbustato, ci si inerpicava fino ai boschi della montagna con querceti, castagneti e faggi. Le colonizzazioni realizzate dai monaci s’irradiavano lungo torrenti e ruscelli seguendo tracciati naturali. Esperti agronomi e ingegneri idraulici, i religiosi misero a coltura i terreni meglio esposti al sole ricchi di risorse idriche, confermando la loro funzione civile quando entrarono in contatto con i Longobardi presenti nel territorio. Di queste vicende e del meticciato etnico veniamo a conoscenza grazie ai riferimenti ai lignaggi italo-greci nel territorio per i cognomi di monaci censiti nella visita di Chalkéopoulus del 1458. Le popolazioni locali conservano soltanto un vago ricordo di questi fatti che li legano in un’identità comune che le tormentate vicende dei secoli non hanno scalfito.
La latinizzazione dei culti greco-ortodossi, operata soprattutto negli ultimi decenni del Seicento dal vescovo Bonito, le difficoltà della grande feudalità, come dimostra il caso dei Pignatelli, la funzione economica sempre più periferica dell’area, la crisi della gelsibachicoltura, sono tutte cause che hanno contribuitono ad impoverire l’area. Intanto, la frammentazione dei centri della Baronia di Novi in mano ad un piccolo baronaggio, rapace e prepotente, aggravava la situazione, mentre il cenobio non animava più nella popolazione locale radici culturali e religiose comuni e i corpi patrimoniali dell’ente ecclesiastico, ormai commenda disabitata, a stento sfamavano l’ingordigia di terra dell’elite locale.
A ricordare tutto ciò oggi rimane il pellegrinaggio e la devozione alla Madonna del Monte grazie all’impegno dei monaci celestini prima e dei rettori del santuario quando divenne diocesano. Di costoro piace ricordare il religioso più famoso, del quale già in precedente si è fatto memoria riportando quanto scrive Bernardo Conti nella sua opera pubblicata a Napoli nel 1718 con riferimenti al saggio di padre Telera. Di quest’ultimo si riporta la pagina relativa a padre Donato Pinto, impegnato a rendere più accogliente il santuario per i pellegrini. Infatti, in Historie sagre degli Huomini Illustri per Santità della Congregat. de Celestini Illustri dell’Ordine di S. Benedetto Raccolte, e descritte da d. Celestino Telera da Manfredonia, stampate a Bologna nel MDCXLVIII, dopo aver proposto il bios di papa Celestino e raccontata la fondazione dell’ordine, passa ad elencare i servi di Dio suoi seguaci e tra questi Donato Pinto di Laurino. Del religioso si riassume la vita fin dalla fanciullezza, quando si segnala per la compassione verso gli infermi manifestando già predisposizione per la vita ritirata di eremita. Per lui diventa naturale la scelta, anche se all’inizio è contrastato dai genitori. Egli indossa l’abito celestino a San Giorgio di Novi e viene destinato a S. Maria del monte segnalandosi per la virtù che subito fa attribuire ai pellegrini molti miracoli. La descrizione di questi episodi aiuta a cogliere le dinamiche antropologiche, culturali e religiose di un ambiente segnato da una marcata ruralità e in simbiosi con una natura bella ma selvaggia, a volte minacciosa come sperimenta lo stesso padre Donato sorpreso dalla nebbia per cui cade in un dirupo ma senza riportare danni.
Il suo ministero nel Santuario viene così sintetizzato da padre Telera:
“Non può descriversi il godimento che sentiva il Padre D. Donato dallo stanziare in quell’Eremo, ove poteva satollarsi di orare, e di servire la gloriosa Vergine (di cui fu tanto divoto & osservante, che non ad altro pensava, né per altro operava, che per Maria) onde per esser quivi dimorato da 23 anni, in circa, menando vita esemplarissima, & affligendo la sua carne con digiuni e penitenze austere, acquistò per tutti que’ paesi fama tale, che buona parte de’ concorrenti andavano anche per vedere questo Servo di Dio, e raccomandarsi alle sue orazioni. Per cagione dunque di tanto concorso conobbe il Padre esservi in quel monte necessità di case, acciò si potessero quelle genti difendere dal caldo, e dalle pioggie; e si risolse con la sua propria fatica fabbricare alcune camere: nelle quali quanto egli stentasse, portando sopra le spalle legne e sassi da luoghi lontani, riferiscono esser incredibile, perché fu quasi sempre solo, e la fabbrica consisteva in molte abitazioni fatte per comodità de popoli. Né deve tralasciarsi, che oltre la Chiesa sudetta, in cui si adorava la miracolosa Imagine, vi aggiunse in diversi luoghi del molte Cappelle, da lui inventate, per accrescere la divozione de fedeli verso Maria Vergine; & in effetti crebbe a tal segno la venerazione, che, mercé de suoi santi portamenti, pervenne ad esser una delle maggiori divozioni che havesse il Regno di Napoli.”
Tramandare questi fatti, ricordare questi personaggi, riproporre ritualità e animare scelte e convinzioni dovrebbe costituire il frutto di un pellegrinaggio dello spirito che è anche una evocazione di un passato ancora ben radicato nel profondo dell’animo di un popolo.
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