Sono trascorsi 55 anni da quel lontano 26 giugno 1967 in cui moriva don Lorenzo Milani, priore a Barbiana, dove mise in opera una scuola innovativa che provocò un ampio dibattito sulle innovazioni da apportare in materia di pedagogia, un dibattito che certamente non si spense con la sua morte. In questi anni, infatti, quella “scuola” e l’opera di don Milani restano un punto di riflessioni importanti, di dibattito, di incontri, su una scuola che sappia cosa e come dare una formazione ai giovani.
Barbiana è un gruppo di case del Mugello, tra boschi di castagni. La strada carrozzabile, all’epoca, finiva ai bordi della valle, poi bisognava proseguire a piedi fino ai 500 metri di altezza su cui si ergeva il borgo. Non c’era acqua, né luce, né telefono e la posta non arrivava. Erano rimasti pochi abitanti, gli altri erano scesi a valle, nei paesi vicini o in città: era l’emigrazione per lavoro, l’esodo dalla solitudine. Il Vescovo di Firenze era deciso a chiudere la chiesa di S. Andrea; invece quella parrocchia, affogata nel profumo del riccio, continuò a funzionare, ma non per rispondere alle esigenze spirituali della gente, “in tutto sono rimaste 39 anime”, bensì per isolare un prete scomodo, un prete che stava con i poveri contro i ricchi e quindi un prete comunista. Così una mattina di dicembre del 1954, a causa di screzi con la Curia di Firenze che lo riteneva troppo franco e poco felpato nei toni e troppo vicino agli emarginati, in quella chiesa intorno alla quale si aggregavano poche case sparse tra i boschi e i campi, fu mandato don Lorenzo Milani, un prete che giunse su quell’erta con nel cuore la fede e la speranza in Dio e negli uomini.
In seguito, nel 1963, alla luce di una maturata coscienza evangelica, don Milani scriverà: «È evidente che i cattolici siamo noi che abbiamo amato i comunisti e i lontano in genere, e non quelli che li hanno combattuti». E ancora, in una lettera scritta dai suoi ragazzi di Barbiana insieme a lui e riferita al socialismo, si leggerà che quella presenza politica era “il più alto tentativo dell’umanità di dare, anche su questa terra, giustizia e eguaglianza ai poveri”. Ce n’era ben donde per etichettare quel prete “scomodo”. Ma il Concilio Vaticano II, i viaggi papali con gli abbracci ecumenici, gli incontri interreligiosi fino a quello mondiale ad Assisi di Papa Giovanni Paolo II con i capi di tutti le confessioni religiose, daranno ragione, alla fine, alle “idee visionarie” di quel “povero” priore di montagna.
Don Milani era nato da una famiglia illustre, ricca e di antica tradizione umanistica. Lorenzo e i suoi fratelli ebbero una “educazione liberale e laica ispirata ai modelli culturali dell’alta borghesia illuminata”. I genitori non erano sposati in chiesa, né avevano battezzato i figli; la madre era di famiglia boema di origine ebrea. Ai tre ragazzi il battesimo fu amministrato nel 1933, don Lorenzo aveva 10 anni, per metterli al riparo dalle persecuzioni antisemitiche del regime, tanto che più tardi, divenuto prete, don Lorenzo dirà di aver ricevuto un “battesimo fascista”.
La sua prima vocazione fu la pittura e niente lasciava intravedere che presto avrebbe cambiato strada.
Restano sconosciuti i motivi della sua conversione al cattolicesimo e i perché della scelta sacerdotale. Ma nell’estate del 1942, durante una vacanza a Gigliola, piccolo borgo di Montespertoli, decise di affrescare una cappella; durante i lavori lesse un vecchio messale che lo appassionò non poco, tanto da scrivere all’amico Oreste Del Buono, suo compagno al Liceo Berchet di Milano: “Ho letto la Messa. Ma sai che è più interessante dei “Sei personaggi in cerca d’autore”?”. Di certo, per chi ha fede, era il compimento di un disegno divino.
Ma di certo fu determinante anche una considerazione, che guidò don Milano sino alla morte avvenuta a 44 anni. Ad un certo momento “fu stanco di vedere soffrire gli uomini, gli animali, il cielo, la terra, fu stanco delle loro sofferenze, delle loro stupide sofferenze, dei loro terrori, della loro interminabile agonia. Fu stanco di avere orrore e di avere pietà. Ebbe vergogna di avere pietà eppure tremava di pietà e di orrore. Tutte le ingiustizie subite dagli uomini da parte di altri uomini, tutte le sofferenze derivanti da condizioni di vita certamente non volute gli procuravano dentro un acre sapore di dolore”. Quanta attualità in questo pensiero di attenzione per gli altri!
Il messaggio di Cristo era caduto nel vuoto per tanti individui che pure si fregiavano il petto con la Croce. Volle perciò raccogliere interamente il grande messaggio evangelico di uguaglianza e giustizia e tradurlo in validi insegnamenti sociali di parità tra tutti: duemila anni di storia cristiana, di sofferenze, martirii, insegnamenti gli si pararono dinanzi e gli indicarono la strada da seguire, una strada stretta e irta di rovi, ma al cui orizzonte brillava una luce.
Ed è per questa ragione che ai suoi ragazzi di Barbiana, quelli della sua scuola per i figli dei contadini e dei montanari, non aveva mai chiesto di quale confessione religiosa o politica fossero, mai domandato quale giornale leggessero o quale tessera politica avessero in tasca. Lui si preoccupava soltanto di far sì che anche a quei ragazzi di quel paesino del Mugello non fosse negata la gioia di saper leggere, di conoscere la verità. Erano esseri ancora non entrati nel vortice distruttore che condiziona la maggior parte del genere umano, erano esseri ancora pervasi da quella purezza che si può respirare in un bosco di castagni o in un prato di fragole di montagna. E per questi giovani, a differenza della scuola ufficiale, don Milani non si preoccupava di quanto insegnava, ma soprattutto di cosa e come insegnare. La scuola si svolgeva nelle ore più impensate, dopo i lavori nei campi, impegnando i ragazzi praticamente tutto il giorno e sette giorni la settimana. Era una scuola aperta, dove il programma era condiviso dagli allievi, le idee proposte dal maestro erano spesso rivoluzionarie e per l’epoca ritenute pericolose. Era un anelito di riforme scolastiche sulle quali si è fatto e si fa ancora un gran parlare al vento, era l’anticipo di un movimento sessantottesco, ma incanalato nel solco di una rivoluzione cristiana, perché per don Milani il Vangelo era come il vomere che rivolta la terra perché nascano buoni frutti.
L’uguaglianza fra tutti, questo grande messaggio della carità cristiana, don Lorenzo lo recepì, lo fece parte integrante di sé e lo difese ad oltranza di fronte a tutti.
Perché – si chiedeva – un uomo, solo perché nato ricco, deve conoscere ed un altro, nato povero non per colpa sua, deve ignorare? Perché un popolo forte deve opprimere uno più debole? Domande che oggi mostrano di essere di grande attualità.
E furono così le “Esperienze pastorali” edite nel maggio del 1958, scritte sulla scorta di quanto maturato a Calenzano, dove don Milani fu mandato ancor fresco di seminario, appena ordinato sacerdote. Egli insegnava a non allinearsi, ma a ragionare da soli anche sugli argomenti più seri, perché – come scriveva Benedetto Croce – “la libertà dà ragione e significato e dignità all’esistenza dell’uomo sulla terra”. E Indro Montanelli sul Corriere della Sera affermò che il libro «è stato scritto, e anche stampato, con tale spregio di tutto ciò che può costituire richiamo per il lettore, da disarmare qualunque diffidenza sulle sue intenzioni». Poi aggiunse che Don Milani «dice senza dubbio molte cose assurde: quelle che gli hanno valso appunto la condanna del Sant’Uffizio» che, nel dicembre dello stesso anno, ne ordina il ritiro dal commercio, perché ritenute “inopportune”.
Era in ospedale a Firenze per curarsi del male, quando su un quotidiano lesse un documento dei cappellani militari della Toscana in congedo, con il quale “ritengono un insulto alla patria e ai suoi caduti l’obiezione di coscienza che, estranea al comandamento cristiano dell’amore, è espressione di viltà.
L’iniziativa colpì nell’animo don Milani, che in collaborazione con i suoi ragazzi di Barbiana scrisse “Risposta di don Milani ai cappellani che hanno sottoscritto il comunicato del 12-2-65”. Una lettera con la quale si schierò a favore dell’obiezione di coscienza, contro qualsiasi forma di guerra, in nome dei principi del cattolicesimo.
Quella lettera mise in discussione decenni di retorica patriottica, suscitando le ire di un gruppo di ex combattenti che denunciarono don Milani e il giornalista Luca Pavolini. Erano tempi diversi da oggi in cui non si ha più bisogno dell’obiezione di coscienza, avendo lo Stato un esercito di professionisti. Ma, allora, i due vennero rinviati a giudizio avanti al Tribunale di Roma, per “l’incitamento alla diserzione e alla disubbidienza”. Il Tribunale assolse i due imputati perché “il fatto non costituisce reato”.
Agli inizi del mese di maggio 1967, un mese e mezzo prima della sua morte, venne pubblicata la “Lettera a una professoressa”, un libro scritto da otto ragazzi della scuola di Barbiana con la collaborazione del Priore. Fu una protesta contro il classismo della scuola che “toglie ai poveri i mezzi di espressione e ai ricchi la conoscenza della cose”. Diceva: “Quando avete buttato nel mondo di oggi un ragazzo senza istruzione avete buttato in cielo un passerotto senza ali”.
Inoltre si legge “La teoria del genio è un’invenzione borghese. Nasce da razzismo e pigrizia mescolati insieme. I ricchi ridano pure e noi ridiamo di loro che non sanno scrivere né un libro né un giornale al livello dei poveri”. In fondo don Milani sembrava sottolineare che non c’è poesia senza uno spirito popolare. E, forse, il vero, grande insegnamento della “Lettera” è in quella convinzione che lo studente non è materia informe da «formare». Lo studente arriva con un suo bagaglio culturale che viene dal suo popolo, dalla sua terra. E questo bagaglio culturale non è meno importante, anzi: è lo spirito popolare, lo spirito di quelle terre del Mugello, il sapere dei contadini e dei montanari che interessa ai ragazzi e a Don Milani.
Ma ancor più mostravano la forza d’animo di don Lorenzo le sue lettere agli amici: erano l’espressione di delicatezza di un uomo che viveva e pensava, per cosciente e libera scelta personale, come i poveri, che viveva uno stato sacerdotale nella sicurezza della giustizia evangelica. Al suo amico Pipetta scriveva: “Il giorno che avremo sfondato insieme la cancellata di qualche parco, installato la casa dei poveri nella reggia del ricco, ricordati Pipetta, quel giorno ti tradirò, quel giorno finalmente potrò cantare l’unico grido di vittoria degno di un sacerdote di Cristo, beati i poveri perché il regno dei cieli è loro. Quel giorno io non resterò con te, io tornerò nella tua casuccia piovosa e puzzolente a pregare per te davanti al mio Signore crocifisso”.
Quando per don Milani giunse il momento del ritorno alla casa del Padre, tanti uomini si illusero che ormai per loro sarebbe tornata l’agognata, ipocrita tranquillità, si illusero che quel prete non avrebbe più dato fastidio. Forse anche la Chiesa (non quella apostolica) tirò un sospiro di sollievo. Chi invece lo aveva conosciuto sapeva che la morte di don Milani era solo corporale. I suoi principi ed il suo esempio sarebbero vissuti a lungo ed ancora oggi, dopo 55 anni, il dibattito continua in una costante verifica e in un puntuale riscontro nella storia quotidiana degli accadimenti umani. Il suo esempio è stato di guida e determinante per tanti uomini insicuri.
Non sono mancate e non mancano strumentalizzazioni, ma questa è la sorte che tocca a quanti lasciano dietro di loro un solco profondo nella buona terra dell’umanità: tutti cercano di seminarvi. Era successo per don Primo Mazzolari, per don Minzoni e succederà ancora; don Milani, quindi, non poteva rappresentare un’isola felice dopo le tempeste che aveva scatenate. Ma, come sempre, sarà la terra a scegliere i semi che dovranno germogliare.
In fondo, come Martin Luther King, don Lorenzo Milani credeva fermamente che “un giorno gli uomini si rizzeranno in piedi e si renderanno conto di essere stati creati per vivere come fratelli”. Parole oggi più che mai vive e necessarie per i venti di guerra che soffiano sull’Europa e sugli uomini.
Il 10 maggio 2014, in Piazza San Pietro, in un discorso al mondo scolastico, Papa Francesco, sottolineò che il segreto della scuola è “imparare a imparare”; e aggiunse: “Questo lo insegnava anche un grande educatore italiano, che era un prete: don Lorenzo Milani”. Poi il 20 giugno 2017 con una di quelle decisioni sorprendenti cui ci ha abituati, Papa Francesco si recò a Barbiana a pregare sulla tomba del prete esiliato dalla Curia fiorentina. Era una sorta di riabilitazione, di ufficialità di quel messaggio evangelico che Don Milani aveva predicato da quel paesino del Mugello, dove non c’era una strada per arrivarci con la macchina. E in una lettera su quella missione sacerdotale il Papa scrisse: “La sua inquietudine, non era frutto di ribellione ma di amore e di tenerezza per i suoi ragazzi, per quello che era il suo gregge, per il quale soffriva e combatteva, per donargli la dignità che talvolta veniva negata. La sua era un’inquietudine spirituale alimentata dall’amore per Cristo, per il Vangelo, per la Chiesa, per la società e per la scuola che sognava sempre più come un “ospedale da campo” per soccorrere i feriti, per recuperare gli emarginati e gli scartati”.
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