Con l’espressione “par condicio” si suole in genere indicare uno dei principi regolatori delle società democratiche in virtù del quale qualsiasi cittadino in possesso di determinati requisiti previsti dalla legge deve ottenere -in condizione di parità- l’accesso alle cariche pubbliche, a concorsi di qualsivoglia natura ad autorizzazioni concessioni di sorta In concreto, esso trova applicazione quando vengono rimosse le cause generatrici di ogni forma di condizionamento e di privilegio a favore di alcuni.
Da qualche anno l’argomento è all’ordine del giorno del dibattito politico italiano per la ricorrente presenza tra i candidati del Cavaliere Silvio Berlusconi, capo del più grosso
partito politico e titolare di un vasto impero mediatico, da lui utilizzabile anche a fini elettoralistici.
Ci si domanda: il martellamento continuo dell’elettorato con una valanga di spot pubblicitari in favore del Berlusconi o del suo partito non potrebbe alterare la dialettica democratica, atteso che nessun altro candidato potrà nel competere con lui ad armi pari per l’elevato costo della pubblicità? Alcuni gruppi perciò lamentano l’enorme privilegio riservato al leader di Forza Italia e reciamano una specifica e più ampia disciplina legislativa, limitatrice della propaganda elettorale televisiva.
Altri ritengono che siffatta normativa allo non sarebbe che un maldestro espediente escogitato dal gruppo dominante per porre il bavaglia all’opposizione, così ledendo il fondamentale principio di libertà tutelato dalla nostra Costituzione.
Sul piano teorico il problema si arricchisce di continui contributi ed appassiona non solo politici, ma anche i giuristi e, in genere, gran parte degli elettori.
Sul piano pratico, va ricordato che esso si inquadra in quel più vasto problema di Lisbona e di uguaglianza, che va correttamente impostato in ogni società democratica, o che è stato sempre posto all’attenzione del legislatore in qualsivoglia età e sotto qualsiasi latitudine. Già nell’immediato dopoguerra, fu provveduto a regolamentare la propaganda elettorale al fine di impedire il consolidarsi dello sfrenato malcostume di tappezzare, con cartelloni e manifesti propagandistici, ogni angolo delle città, fino a raggiungere anche i piani superiore dei fabbricati. Era quello un modo villano di ostentazione della propria presenza nei confronti dei gruppi concorrenti. Ebbene la legge sulla delimitazione degli spazi elettorali e disciplina della concessione di questi a partiti e a candidati, pose fine a siffatti abusi e nessuno ha mai dubitato della opponumita democraticità di quel provvedimento legislativo.
Viceversa oggi si grida allo scandalo sulle limitazioni imposte alla propaganda elettorale televisiva e qualcuno contesta persino il diritto dello Stato a legiferare in proposito, in nome di un non condivisibile ed esasperato concetto della libertà.
Casi precedenti di par condicio sono rintracciabili nell’antica Roma, ove sorse figura giuridica del candidato aspirante all’elezione ad una delle Magistrature repubblicane elettive.
Qui fu subito percepita la necessità di costui di farsi conoscere e di propagandare la propria immagine, e l’uso che apparisse nel foro con la toga candida, da cui derivò poi il termine stesso di candidato.
Sin d’allora però il legislatore intervenne per impedire abusi, ponendo, tra l’altro, il divieto come narra Tito Livio (Store, IV, 25, 16) di accentuare la bianchezza della toga a danno
degli altri.
L’usanza dei candidati di andare in giro in cerca di consensi, affettando ogni sorta di propaganda, era denominata ambitus (da cui derivo poi il termine ambizione) e severe leggi disciplinavano la materia al fine di impedire che un candidato alle elezioni potesse impressionare l’elettorato con forme suggestive di propaganda.
Ancora Tito Livio (Stone, 15, 12, 13) così ricorda la lex de ambitu presentata nel 358 a.C. dal tribuno della plebe Gaio Petelio, su invito del Senato, fu presentata per la prima volta una legge contro la corruzione elettorale; con questa legge si intendeva reprimere gli intrighi ambiziosi soprattutto degli uomini nuovi, che di solito giravano per i mercati e le pubbliche riunioni.
Un modo abbastanza comune di ostentazione della potenza dei candidati romani era l’ uscire per le strade con un codazzo di accompagnatori, composto spesso da un numero rilevante di persono, per lo più prezzolate, le leggi del tempo, intanto, ponevano limitazioni al numero di esse e no vietano il reclutamento oneroso.
Erano giudicati, altresì, illeciti gli allestimenti di spettacoli pubblici, teatrali o gladiatori, con assegnazione gratuita di posti a teatro, o l’organizzazione di banchetti elettorali pubblici, e mentre Cicerone (In difesa di Murana, 23, 47) prende posizione contro il divieto legislativo,.censurando l’app unità, Aulo Gellio (Le notti attiche, Il, 24, 13) ricorda favorevolmente le disposizioni della legge, anzi che sanzionava l’allestimento di banchetti aperti a tutti. Un elenco lunghissimo di espedienti escogitati dai vari candidati nell’antica Roma per impressionare l’elettorato con forme vario di propaganda fu prontamente sanzionato dalle leggi del tempo, anche se spesso con risultati altatto mediocri. Tuttavia, nessuna voce si è mai levata nel mondo antico per contestare la legittimità delle iniziative legislative intraprese nel settore. C’è, però, da domandarsi se la propaganda elettorale (ch’à nient’altro che esposizione di idee, di programmi, di iniziative da intraprendere per l’organizzazione e l’assillo della società) possa ridursi o, equipararsi ad uno spot pubblicitario, (ove spesso la verità taciuta o la realtà è esaltata fino all’inverosimile) che mira a determinare il consenso cercando di impressionare, visionare e avvincere l’elettorato, più che convincere con gli strumenti razionali della logica e del pensiero. Nel terzo millennio sembra quasi ridicolo l’antico divieto di accentuare la bianchezza della toga. Ma che non direste di uno spot pubblicitario che parafrasando pubblicità di un noto detersivo proclama oggi che la toga di quel tal candidato è tanto bianca “che pia bianca non si può”?