Caro Sergio se sapessi.
Se sapessi che mondo stiamo vivendo in questo ultimo frangente, sbiancherebbe anche il tuo profondo blu.
Oramai siamo tutti uomini mascherati, ti ricordi il fumetto l’uomo mascherato? Giriamo come Zombie ai bordi delle periferie della vita.
Noi ce la stiamo cavando, abbiamo il vaccino, ma nel sud del mondo muoiono come mosche perché le dinamiche del Dio danaro e la finanza internazionale non lo permettono. I vaccini solo a noi privilegiati. E ci stanno anche i cretini che lo rifiutano, dando fuoco alle città. Un po’ come il finale del film “Joker” che non so se hai fatto in tempo a vederlo. Ma quelli lì almeno avevano ragione.
Una volta parlammo nel tuo giardino della generazione mille euro: era uscito un libro vent’anni fa che parlava della nuova generazione di sfruttati, laureati che percepivano mille euro al mese. Oggi caro Sergio possiamo parlare di generazione …400 euro. Però i giovani non li capivamo allora e non li capisco ancora di più oggi: non protestano, non si ribellano, tutti ad inseguire la Rolls Royce e una vacanza a Dubai. Pur sapendo che una milionesima parte potrà ottenere questi risultati in questo mondo dominato dall’ingordigia, dal raggiro e dall’ipocrisia.
I tuoi blu sullo sfondo di un tempio non valgono più. Purtroppo la visione di un grande artista è messa da parte. I visionari non contano più un cazzo in questo terzo anno di questa era. E pure perché non sei social, à la page, come dicevano gli istruiti ai tempi nostri. E lo sai perché? Perché vale l’arancio del conto arancio, i blu delle carte di credito, i verdi dell’american express. E mi rifiuto anche di apporre la A maiuscola. Non se lo merita la maiuscola.
Quando morì mio padre accorresti alla sala mortuaria dell’ospedale di Agropoli, era un novembre nuvoloso, vidi la tua sagoma alta da lontano, basculante, stavo scrivendo su un quaderno, lì vicino, col tuo cappello a falde larghe e il tuo soprabito lungo e magro. Mi sembravi un Blues man uscito dalla nebbia del Mississippi. Eri uscito da poco dal S. Leonardo da una brutta operazione dell’ernia discale. Mi abbracciasti e parlammo a lungo. Fumando molto, ci mancava, lo so, un lubrificante alcolico, un po’ di vino o della sambuca.
Quella notte scrissi forse la mia più bella poesia (da poeta dilettante che sono) “94 passi”, dedicata a mio padre, vergata col sangue dell’ abbandono. Ancora oggi le mie vecchie zie quando le incontro “chella poesia ancora a tengo, a tengo rint’o sang” ed io che mi sono quasi scordato cosa ho scritto, faccio fatica a capire. A capire il mondo, la loro straordinaria longevità, la resistenza agli urti della vita, alla resilienza monopolizzata dalla politica.
Tu amavi Camus, lo scrittore esistenzialista, mi parlavi de “Lo straniero”, un grande libro, come se ti appartenesse rigo dopo rigo. Sicuramente un libro che aveva segnato la tua formazione giovanile; la scena del funerale di quel libro la rivissi al tuo funerale. Mi sentivo come del ghiaccio sopra lo stomaco. La notte prima una colica intestinale mi aveva reso il sonno impossibile. Degli imbecilli parlavano ad alta voce del loro schifoso e banale passato. Era un andirivieni di “ E ti ricordi?” E ridevano. Anche a voce alta. Inenarrabile. Il ghiaccio si fece più pesante e stavo per vomitare. Non vedevo l’ora di abbracciare i tuoi ed uscire fuori dalla Paleocristiana.
Molte volte, quando leggevi i miei articoli mi facevi notare il mio stronzo dono dell’empatia: capire gli altri più di quanto capisca di me stesso.
E poi le risate dell’episodio americano nel Central Park. Raccontavi della tua mostra a New York, forse l’apice della tua carriera. Un giorno te ne andasti nel Central Park per fumare in santa pace. In quel frangente passò un vecchio yankee con la fascia in testa che faceva jogging. Erano gli anni di Bush e del salutismo americano. Ti vide sulla panchina a fumare, si fermò e agitando l’indice della mano, ti redarguì amaramente. Il vecchio gridava dei danni della sigaretta e tu gli rispondevi “Ma quanti anni hai? Quanti anni vuoi campare ancora?” Il vecchio atleta non poteva mai capire che la sigaretta, a volte, è la stanza dove rifugiarsi in solitudine, è la libreria che raccoglie gli appunti degli artisti.
Quando salirò ti porterò una bottiglia di aglianico e una matita per disegnare le stelle sul cielo quando è scuro. Scuro di rabbia e smog. Perché noi dalla terra lo stiamo affogando.
Vecchio Blues man del nostro Mississippi che sostavi sotto al tempio di Nettuno a colorare il cielo di Paestum come una ballata di Robert Johnson.
La chitarra la porto io.
Antonio (Tonino) Pecoraro