Probabilmente è nella natura umana, la propensione a non cogliere con il giusto valore, gli aspetti che hanno contribuito a costituire l’essenza del proprio “esserci”. Troppi sguardi addormentati, quelli attuali, sonnolenti e distratti verso le proprie radici, ai trascorsi di un tempo glorioso e rumoroso, se non esclusivamente relegati alle prassi consuetudinarie delle attività commemorative, integrate all’ordinaria amministrazione. Chiunque abbia intrapreso l’affascinante impegno di conoscere e ricercare – le sue origini – in una terra fin troppo dimenticata e surclassata, si è addentrato nei respiri dei popoli, delle civiltà che l’hanno celebrata, nei suoi progressi e nelle innovazioni. Nel prestigio di illustri personaggi o nelle rivolte popolari, nelle implorazioni di urla remote, di un passato saturo di eventi più e meno importanti, riconoscendone in modo “eucaristico” le testimonianze più vicine e degne della preziosa fonte battesimale della verità. Può riguardare la questione che fa il resoconto di un assetto globale, originario, di assoluta matrice generatrice della nostra collocazione o più semplicemente, il “provenir” delle nostre comuni abitudini o usanze collettive. Dalle più rilevanti eredità, risonanti in complesse questioni dal risvolto e apporto di culture diverse, più o meno di immediato riflesso o decisamente influenti, come avviene nei modi di interazione sociale con l’utilizzo del dialetto. Una lingua che rende ogni singola parola, espressione esclusiva, unica da sempre, ad indicare “qualcosa” in un altrettanta ed esclusiva dimora etimologica. Il luogo. Il luogo che, esprime con disillusione la sua martoriata era moderna, rimarcando con specificazione al futuro prossimo, di aver fatto tesoro della luce di ieri, madre di quella attuale, silente e ininfluente ai ritmi della routine quotidiana, ma pur sempre e in egual modo unica e prepotente nelle sue sfumature meridionali, inclini a caratterizzare, come allora, albe sognanti e incantevoli roboanti tramonti a mare. Un lume odierno, ostruito nel vuoto tunnel del disinteresse, riesce ancora per isolati e lucidi tratti, a suggerire una strada da percorrere, ma del cui transito, siamo e resteremo gli unici responsabili. In questo ultimo passaggio, dopo aver visitato la Torre di Novi Velia e l’Ex Convento dei Celestini, con incanto e incondizionata fascinazione, ho raccolto la mia impressione, in un mite pomeriggio di qualche giorno fa. Un’area che comprende diverse costruzioni, in parte riprese con discreti lavori di restauro e altre che, soffrono ancora la condizione di rudere abbandonato, comunque di indiscussa bellezza, espressione magistrale della sua portata storica e paesaggistica. La Torre, adiacente ai due Castelli, è sicuramente il simbolo che contraddistingue iconograficamente il comune di Novi Velia e il suo passato. È costruita in pietra locale sul punto più alto del paese (m. 648), composta da tre sale sovrapposte. Si racconta nell’immaginario collettivo che, avesse un passaggio sotterraneo segreto con il nuovo Castello Baronale dei Marzano. Da subito, appare evidente, per la sua imponenza e strategica posizione, quale fosse il ruolo da sempre assegnatoli. Un prezioso punto di avvistamento per tenere sotto controllo la valle sottostante e maggiormente “La Via del Sale” che, da Elea portava alle miniere di ferro sui costali del Monte Gelbison e nel contempo, anche la zona ovest di Novi. Si può osservare inoltre, una grande fetta dell’intero territorio cilentano; il Golfo di Velia e i Monti Alburni, oltre alla Costiera Amalfitana con i suoi Monti Lattari, Sorrento, Capri e in fortunate giornate prive di foschia anche l’Isola di Stromboli. Al tempo della Baronia, veniva utilizzata come carcere; nel seminterrato venivano rinchiusi i criminali e al primo piano i prigionieri comuni. Pertanto, il terzo piano, è sempre rimasto destinato a svolgere la funzione di punto di osservazione, tant’è che, gli stessi soldati tedeschi in ritirata, dopo l’8 settembre del 1943 la utilizzarono per lo stesso fine. Tuttavia, la Torre, di origini presumibilmente normanne, viene collocata e menzionata negli archivi, in un periodo storico preciso, quello che interessa l’anno 1282. Erano in corso i Vespri Siciliani e la guerra tra Carlo d’Angiò e Pietro III di Aragona che, durò per oltre venti anni e che fece del Cilento meridionale, il suo teatro principale. Tanti furono i danni provocati ai paesi della costa e anche alla Baronia di Novi. La Torre fu deturpata insieme alle Mura del primo Castello, costruito probabilmente dai Longobardi un secolo prima. Successivamente, Guglielmo di Marzano, chiese l’aiuto al Re, per avere il denaro necessario a ripristinare le strutture in rovina, riparò sia la Torre che le Mura, ma ritenne la riparazione del Castello, troppo costosa e inadeguata alle nuove necessità belliche, al punto di costruirne uno nuovo con sistemi di difesa più adatti per contrastare gli assalti dei nemici. I lavori, iniziati nel 1291, furono sospesi repentinamente per volere di Carlo II d’Angiò, che ne aveva ordinato la demolizione e solo dopo 6 anni, con un decreto del 26 Ottobre 1297, il Re diede il permesso di continuare la costruzione, ripresa nella primavera dell’anno seguente. Nel 1309 gli Angioini riuscirono a rientrare in possesso di gran parte del Cilento. Novi, curò in breve tempo le ferite della guerra, grazie all’autorevolezza di cui beneficiava presso la Corte di Napoli, il successore di Guglielmo, il fratello Tommaso; la figura più rappresentativa della famiglia Marzano. Nel 1313, fu nominato Conte di Squillace e Grande Ammirato del Regno e assunse la Baronia di Novi nel 1296, anno che coincide con la morte del Papa Celestino V, al quale la potente famiglia dei Marzano nutriva una grande devozione. Per questo motivo Tommaso, nel 1297, molto legato anch’esso alla figura del Pontefice, affidò ai Padri Celestini la cura del Santuario della Madonna del Sacro Monte, provvedendo a completare una parte del nuovo Castello già iniziato dal fratello Guglielmo, mentre intanto il vecchio Castello che, aveva subìto i segni della guerra aragonese angioina, veniva donato, nel 1306, ai Padri Celestini, riadattando la struttura a monastero e successivamente a seminario. Il progetto del Barone Tommaso, ebbe la sua completa attuazione il 23 Settembre 1323 in seguito ad un accordo preso con Mons. Filippo di San Tomagno, Vescovo di Capaccio, con il quale, i Padri Celestini diventarono i padroni e i custodi del vecchio castello per circa cinque secoli. Pertanto il “nuovo Castello”, fortezza adiacente sia alla torre che alla vecchia struttura, appartenne ai Marzano, per tutto il periodo del Regno degli Angioini fino al Re Ferrante d’Aragona (1458 – 1494), contro il quale Marino, sposo della sorella e ultimo successore dei Marzano, sperava per un ritorno degli Angioini sul trono di Napoli. Marino fu arrestato e imprigionato con la confisca di tutti i suoi beni tra cui la Baronia di Novi e il suo Castello. Il Palazzo assieme alla Baronia, fu venduto prima a De Petrucis, primo ministro del Re Ferrante, quindi a Berlangiero Carrafa, maggiordomo del Re Federico d’Aragona e successivamente a Giulia Carrafa, figlia ed erede di Berlangiero, sposa di Camillo Pignatelli che divenne Barone di Novi. La Baronia di Novi con il suo Castello rimase ai Pignatelli per tutto il cinquecento fino al 1682, anno in cui fu acquisito dalla Famiglia Zattera, detentori del Feudo di Novi fino alla sua soppressione all’inizio dell’Ottocento. Rimase sede abitativa degli Zattera fino all’inizio del Novecento, quando l’edificio venne venduto nel 1932 per adattarlo ad abitazioni civili. Stesso destino anche per l’Ex Convento dei Padri Celestini – il seminario – che fino agli anni ’90 del secolo scorso, ospitava all’incirca 25 famiglie. Si apprende dall’amministrazione odierna, l’intento di riqualificare con fondi regionali, la parte superiore della struttura dell’Ex Convento dei Celestini, facendo rientrare l’intera area, connessa ad altrettanto luoghi d’interesse, in un unico percorso storico culturale.
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