La prima domanda è d’obbligo. Chi è Elisa Montone?
Non ci crederai ma è la domanda per me più difficile a cui rispondere ogni volta che mi viene posta. È complicato descriversi. Elisa Montone è un architetto pianificatrice che ha studiato e vissuto a Napoli per un pò di anni e il suo sogno è quello di diventare un’artista e poter dipingere tutta la vita, o comunque di muoversi in ambienti creativi. I suoi studi, che riguardano anche tutto il processo di partecipazione e di dinamiche politiche e sociali di un luogo e la sua curiosità verso il genere umano, la spingono a raffigurare specialmente persone nelle sue opere. Persone intese come stati emozionali e sentimenti comuni. Proprio durante gli studi universitari ho iniziato, in modo piuttosto assiduo, a disegnare e nel 2019 ho esposto i miei lavori un pò in giro per piccoli festival ed eventi organizzati in Cilento, la mia terra d’origine. Nel 2020, sotto consiglio di un prezioso amico, ho inviato la mia candidatura e sono stata selezionata per la Biennale d’Arte di Salerno, tenutasi poi nel novembre del 2021. Negli ultimi mesi ho partecipato alla mostra d’arte “Vista dall’altro” del MacFest di Cava dei Tirreni, che si è poi spostata quasi interamente a Roma per il “Pigneto Film Festival”. La scorsa estate ho svolto una performance di live painting durante il festival “Spaziale” dell’associazione Altrospazio di Agropoli, e da tempo collaboro con musicisti e scrittori a diversi progetti di artwork e illustrazione.
Si dipinge con le mani e si vede con? Qual è lo sguardo di Elisa su ciò che dipinge?
Col cuore è banale! No, in verità non penso ci sia un solo modo di vedere ed il mio sguardo credo sia critico e curioso perché viene perlopiù dalla realtà. Quello che disegno parte da una scena di vissuto, ma anche da fotografie, romanzi e film. Non so se il cuore o la mente o tutte e due scelgano quale visione sia più meritevole di essere raffigurata, fatto sta che sento un processo di elaborazione che nasce come desiderio di disegnare e colorare quello che sto vedendo o sentendo, e che poi diventa forma sul foglio, filtrata dal mio giudizio e dai miei valori. Credo sia uno sguardo introspettivo e molto poco distaccato, volendo essere presuntuosa.
La tua arte si colloca nel mezzo tra illustrazione e pittura. Che differenza c’è tra queste due modalità espressive e quali invece i punti in comune?
Ad essere sincera non c’ho mai pensato a dove poter collocare i miei disegni. Cercando su google i due termini praticamente dice che l’illustrazione è riproducibile e la pittura è eterna quindi la prima è accostata alla “dinamicità”, la seconda alla “staticità” (in brevissimo), però non è proprio così. Penso che nascano entrambe dal disegno e tutto si mescola a seconda dell’esigenza di quello che si sta esprimendo ma, per quanto mi riguarda, più semplicemente mi viene da dire che si differenzia per i mezzi e gli strumenti che si usano per farlo. Quindi potrei dire che la pittura per me è dipingere ad olio su tela mentre l’illustrazione è usare per esempio tavoletta grafica e Photoshop. Tuttavia, visto che mi trovo a metà tra le due cose mi sento confusa a spiegarlo (ride).
La tua collaborazione con “Detti, Proverbi e Modi di Dire Cilentani” ci ha regalato meravigliose illustrazioni capaci di restituire agli occhi il senso figurato dei dialetti cilentani, la loro vocazione a giocare con allegorie e metafore. Puoi sceglierne uno per noi che maggiormente ti rappresenta (e volentieri illustreresti) in questo momento?
Il progetto è nato da un’idea di Giuseppe Galato, anche lui cilentano, che vive e lavora sul territorio e osserva da vicino il Cilento e i cilentani. L’intento è stato quello di riscoprire e spiegare il significato di detti e proverbi che spesso racchiudono in poche parole il senso di un’intera situazione avvenuta o che può avvenire, cioè sono quasi una sorta di avvertimento e raccomandazione. Abbiamo così pensato di accostarli a delle illustrazioni che avrebbero tradotto le suggestioni del lettore in immagini e immaginari. Sono cresciuta con la mia bisnonna e da piccola lei mi ha insegnato molti termini dialettali antichi e uno dei detti che lei spesso diceva e che ho sempre pensato mi rappresenti è: “facess’ a culata io e iassesse u’ sole”. Mi viene da ridere quando lo leggo ma ora cercherò di tradurlo nel miglior modo possibile. La “culata” era la colata, ovvero il bucato, poiché prima i panni venivano lavati al fiume ed asciugati al sole. Quindi, in senso letterale, significa che ogni volta che faccio il bucato io non esce mai il sole. In senso metaforico vuol dire che quando devo fare qualcosa di importante non si creano mai le condizioni favorevoli e fortunate. Mi rappresenta perché sono fondamentalmente una pessimista!
Hai esposto al “MacFest” di Cava dei Tirreni, al “Pigneto Film Festival” di Roma, al Festival “Spaziale” di Santa Maria di Castellabate e, di recente, alla quarta edizione della Biennale d’Arte Contemporanea di Salerno. Qual è stata l’esperienza professionale per te più creativa o gratificante e perchè?
Non vorrei sembrare perbenista o poco coraggiosa non scegliendo una di queste esperienze definendola “la più bella”, ma davvero ognuna di esse mi ha fatto imparare qualcosa di diverso. Al “MacFest” per la prima volta ho esposto da sola. Non si è trattato di una mostra personale ma di un evento in cui non conoscevo nessuno, nè tra gli organizzatori nè tra i partecipanti. Ero quindi fuori dalla mia comfort zone e perciò mi sono sentita come un uccello che vola libero. Il “Pigneto Film Festival” mi ha fatto sentire parte di qualcosa di sinergico, di intrecciato e di forte, perché la mostra era un pezzo importante di un festival multidisciplinare, fatto di registi, attori, musicisti, scrittori. E poi era a Roma, insomma la capitale. “Spaziale” è stato il mio primo live painting e in più facevo parte dell’organizzazione. Inoltre si è svolto nella villa comunale del mio paese, quindi mi sentivo carica emotivamente ma anche un pò piena di aspettative. Infine, la “Biennale d’Arte di Salerno”: basti dire che è stata la mia prima mostra d’arte internazionale per riassumere l’eccitazione che ho provato nel vedere una mia opera affiancata a quella di artisti che venivano da tutto il mondo. È stato bello trovarmi ad un’esposizione colma di gente, che passando si fermava a guardare anche quello che avevo portato io! Spesso infatti cercavo di ascoltarne i commenti. Mi ha insegnato, o meglio suggerito, a perseverare.
Lo scrittore portoghese José Saramago diceva: “Gli artisti lavorano nelle tenebre e come ciechi soppesano l’oscurità.” Quest’anno la quarta edizione della Biennale era dedicata al lato oscuro della luna. In che modo l’opera con cui hai partecipato mostra e racconta l’oscurità?
La biennale era dedicata al lato oscuro della luna e forse calza bene il paragone con i versi di Saramago, riferito alla concezione che nell’immaginario si ha dell’artista più che specificamente delle sue opere. Ad ogni modo l’opera che ho portato alla mostra è legata al periodo in cui vivevo a Napoli, e si chiama “via Pasquale Scura 45”. É nata su un soppalco di una stanza tripla in cui vivevo. L’oscurità, o meglio forse il mistero, è racchiuso nello sguardo del soggetto rappresentato, una donna seduta che fuma e probabilmente guarda fuori dalla finestra perché si intravede un davanzale. Quando l’ho fatto stavo finendo la specialistica e il futuro cominciava a pressarmi, il vuoto, il buio cominciavano a essere presenti. Dalla mia finestra altissima di un quarto piano vedevo la città e di notte, dal letto, intravedevo il mare come una tavola nera dopo le luci minuscole dei palazzi e delle strade, e più sopra osservavo spesso la luna che sembrava comandare tutto. Il soggetto, benchè non fossi propriamente io, rimandava comunque a quella parte di me malinconica e persa con gli occhi sul proprio mondo interiore.
Grazie Elisa! Ti auguriamo che quando farai la “colata” uscirà sempre il sole.
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