Quando gli chiedevano come si chiamasse, con la sua voce garbatamente scugnizza, rispondeva: «Benino». E tutti pensavano che ancora non capiva bene l’italiano.
Il piccolo, con la pelle lucida e nera come l’ebano, era giunto sulle italiche coste meridionali con una delle tante carrette del mare che ogni giorno sbarcano poveri disperati. La madre, stremata, lo teneva stretto a sé e fece appena in tempo a consegnare quel fagottino di poche settimane nelle braccia del guardiamarina. Ilaria, nella sua divisa bianca, lo aveva preso e lo aveva riscaldato al suo petto mentre la mamma, in una lingua incomprensibile, le diceva qualcosa. Un altro clandestino, lì dappresso, in un italiano stentato tradusse: “dice tu prendere cura di lui”. La giovane guardiamarina guardò quegli occhi imploranti e mostrò alla poveretta il volto del bimbo, accennando un sorriso rassicurante. La donna spirò, sicura che almeno il figlioletto avrebbe avuto una vita più serena.
Lui, col visetto nero, faceva capolino da uno scialle fornito dalla protezione civile e, in una lingua universale, reclamava il suo diritto ad una poppata di latte. Subito Ilaria si procurò una bottiglietta con biberon per allattare il piccolo.
Come legge comanda, il “clandestino” fu affidato alle cure di un’assistente sociale, ma solo per pochi giorni: il guardiamarina Ilaria, grazie al marito avvocato e ad un giudice sensibile, riuscì ad ottenere un affido in breve tempo. E così il piccolo nero, giunto da una sperduta capanna nella foresta africana, si ritrovò in quella casa nuova che ancora non aveva conosciuto il pianto di un bimbo.
Giorno dopo giorno Ilaria, con il marito Pietro, scopriva quanto un bambino possa riempire una casa, una vita e che il suo pianto non ha un idioma legato al colore della pelle o al paese di nascita, non è protesta per motivi religiosi o politici, non ha rabbia o odio verso qualcuno: è solo esigenza di aiuto.
In onore al santo nel cui giorno di festa Ilaria lo aveva per la prima volta tenuto tra le braccia, il piccolo fu battezzato col nome di Antonio.
Passarono i mesi, passò qualche anno e il piccolo si ritrovò ad aiutare il padre adottivo nella annuale costruzione del tradizionale presepe. Pietro spiegava: «Questa è la Madonna, che mettiamo nella grotta insieme a San Giuseppe. In mezzo a loro, la sera di Natale, tu metterai il Bambinello. Avanti alla grotta mettiamo gli zampognari: il vecchio con la zampogna e il giovanotto con la ciaramella. Questo è “l’Angelo dell’Annunzio”, che nel presepe va insieme a questo con lo sguardo incantato, chiamato “il pastore della meraviglia”. Ecco il re Erode il cattivo, che sta nel palazzo in alto. Tutti questi suonatori mori sono la banda musicale. Ecco i tre Re Magi: Gaspare il giovane, Melchiorre il nero e Baldassarre il vecchio. Questo è lo sciacquante e va vicino alla tavola dove si mangia, mentre l’altro, sul carretto con le botti, porta il vino e si chiama Ciccibacco».
Il piccolo Antonio ascoltava con attenzione quella favola antica e sempre affascinante. Poi prese dalla scatola un pastore disteso, che dormiva. Lo guardò con attenzione e chiese al padre come si chiamasse. Pietro rispose: «Benino». Il piccolo ci pensò su un po’ e, alla fine, disse. «No, io Benino, io Benino». Pietro guardò il piccolo incuriosito poi, stando al gioco, disse: «Va bene, tu sei Benino». Un sorriso si aprì su quel volto incorniciato da fitti riccioli corvini e i furbi occhietti si illuminarono, come di fronte ad un grande dono. Pietro si accorse che il sorriso di un bimbo non ha diversità di razza, non ha connotazioni, in nessuna dimensione dell’universo, è solo pura gioia.
Quello stesso giorno Pietro andò da un suo amico pastoraro e si fece dipingere un pastore dormiente col volto e le mani nere.
La notte di Natale il piccolo Antonio raccolse tra le sue manine d’ebano schiarito il bianco Bambino Gesù e lo portò nel presepe, adagiandolo nella grotta di sughero, tra la Madonna e San Giuseppe, sotto l’alito caldo del bue e dell’asinello. Poco distante dalla grotta era stato adagiato il nuovo pastore dormiente; Antonio lo notò e fu un grido di gioia: «Io, Benino».