È stato sempre ritenuto dalla maggior parte delle persone un mostro sacro dell’arte salernitana; Achille Bonito Oliva lo definì “un artista nomade e disertore”, Antonio Caporaso lo definisce “rivoluzionario” per quel suo modo di creare al di fuori di ogni schema. Ma a farci una chiacchierata in una sera di mezzo autunno, si scopre che lui, Pietro Lista, in fondo è una persona ricca di umanità nei confronti del prossimo, categoria di persone ormai in via di estinzione, e con dentro un grande entusiasmo, una voglia di fare arte, nonostante la “tenera età di 80 anni”, come ama dire.
«Il mio racconto d’artista è particolare – dice Lista – perché sono partito dall’arte nucleare e miei maestri sono stati Giovanni Brancaccio, Mario Colucci, Vincenzo Ciardo, Emilio Notte, Mario Persico». Arte nucleare che si impose agli inizi degli anni cinquanta del secolo scorso in conseguenza dei bombardamenti atomici sul Giappone. Fondato da Enrico Baj e Sergio Dangelo, i nucleari dichiaravano in un manifesto “vogliamo e possiamo reinventare la Pittura. Le forme si disintegrano: le nuove forme dell’uomo sono quelle dell’universo atomico”. Un enunciato cui Pietro Lista ha, praticamente, tenuto fede nel suo lungo e non facile viaggio nell’arte da lui definito «drammatico, perché inseguendo i sogni».
Nato a Castiglione del Lago sul lato occidentale del Trasimeno, giunse a Salerno nel 1954, pochi giorni prima della tragica alluvione che devastò il territorio salernitano: Pietro ne visse intimamente le paure, le angosce, le difficoltà. L’incontro con Marcello Rumma, «un grandissimo intellettuale e attento ai movimenti culturali e artistici di quegli anni», fu una pietra miliare per Pietro Lista. Nella sua intelligente lungimiranza e con l’attivismo che lo caratterizzavano, Rumma organizzò ad Amalfi, negli antichi arsenali, tre mostre intitolate “ritorno alle cose stesse”, “impatto percettivo” e “l’arte povera”, settore quest’ultimo in cui allora si muoveva Lista, che all’invito di Rumma decise una particolare performance, di quelle che Caporaso ha definito «rivoluzione seguendo la strada dell’innovazione e stando sempre un passo avanti agli altri artisti, anche più giovani di lui». Per l’appuntamento amalfitano, infatti, Lista si inventò “la scheggia di luce”: accompagnato dalle note del piffero suonato da Rosa, moglie di Alighiero Boetti, e la danza di Ableo, Pietro scavò con le mani nella sabbia nel punto dove batte l’onda per rivelare al pubblico “lampi di luce” che sembravano provenire dalle viscere della terra, una luce che scompariva dopo pochi secondi coperta dal sopravanzare dell’onda marina, e questo tre, quattro volte. A distanza di oltre 50 anni Lista ancora ricorda quei momenti di “grandissima emozione”, vissuti in una tiepida serata amalfitana, vicino al mare dei miti e delle leggende: suggestioni senza tempo che ancora commuovono il finto burbero artista, il “selvaggio” che non ha mai agito per le luci della ribalta, ma esclusivamente per seguire “virtude e canoscenza” del suo essere al di fuori degli schemi. Una esperienza durante la quale Lista conobbe artisti di fama internazionale come Zorio, Celan, Pistoletti; ma soprattutto strinse la sua amicizia con Marcello Rumma, che aveva galleria a Napoli. «Dopo qualche anno, però, vi fu la tragedia. Marcello si suicidò»: la commozione per quei ricordi impedisce all’anziano artista di continuare a parlare, il suo viso quasi scompare tra la folta barba bianca e la lunga capigliatura, gli occhi si inumidiscono sotto i leggeri occhiali di metallo. È questa l’anima di un uomo che si definisce “selvaggio”, che si sente fuori da ogni contesto sociale, ma che lascia fuori la porta del suo cuore ogni pur comprensibile, umana nostalgia.
Di quegli anni Pietro Lista ricorda la preziosa e lunga esperienza della Galleria d’arte “Taide” un punto di riferimento importante nella vita culturale di una cittadina di provincia quale era Salerno. «Erano le prime volte che Achille Bonito Oliva veniva a Salerno – dice Pietro – Filiberto Menna rientrava da Roma, all’Università di Salerno vi era Enrico Crispolti ed Edoardo Sanguineti, Angelo Trimarco, per cui si era creato un clima di grande respiro culturale». Va ricordato che altre gallerie in quegli anni tenevano alta a Salerno la lanterna della cultura: la Dadodue di Antonio Baglivo, La Seggiola di Cinque, Il Catalogo di Lelio Schiavone voluto da Alfonso Gatto, La Bottegaccia di Enzo Castaldo. Un fermento culturale che suggerì a Pietro Lista anche la nascita di un giornale: “Fuori sacco”. Era, quella, la Salerno che «sapeva coniugare la raffinatezza dell’arte, – ricorda Mariano Ragusa – proposta alla platea degli autentici amanti del bello, con quel tocco di glamour e mondanità senza gratuite sguaiatezze».
E si è assaliti da un rammarico profondo: “se solo questa città di mare, adusa all’accoglienza, avesse un minimo di memoria per ricordare!”
Una serie di circostanze pose fine all’esperienza della “Taide”, ma Pietro non si fermò e fu il MMMAC, Museo dei Materiali Minimi di Arte Contemporanea, padre putativo Gillo Dorfles, a Paestum, sito di antichità, un luogo dove raccogliere i materiali minimi degli artisti di oggi da affiancare alle schegge della storia, frammenti di vasi, di affreschi e altre testimonianze di un passato emerso. Fu un successo in crescendo, che trovò la sua fine quando Lista cominciò a urlare contro gli scempi che si compivano intorno alle mura millenarie: «Quando ho visto intorno alle mura di Paestum la follia dei marciapiedi in tek non ho resistito ed ho cominciato ad urlare in tutti i modi, con gli ambientalisti, con manifesti ed altro. La conclusione fu che mi fecero chiudere il Museo». L’anziano maestro ancora una volta rintana il volto nella folta barba poi: «Da quel giorno mi sono isolato per cui sono oltre dieci anni che vivo la mia vita di artista in solitudine, faccio le mie cose con grande entusiasmo, con la voglia continua di creare, ma lontano da tutto».
Lo spazia intorno, nell’ampia sala-laboratorio di idee e suggestioni dove raccogliere sguardo i ricordi, le emozioni del passato. E si scopre una sorta di gabbia, con una luce minima. Lo sguardo corre dalla “gabbia” all’artista seduto sul divano con le gambe accavallate, gesto di cui va fiero, perché di un ritorno in linea fisica. Poi spiega: «Ho ripreso a fare le reti. Le facevo negli anni settanta. Annodare la corda è sentirmi vicino a San Francesco, mio conterraneo, che ha lasciato ai suoi frati il cordiglio annodato». Rimbalzano nella mente i giovanili anni di studi napoletani quando la domenica Pietro frequentava le “cavità umide delle chiese barocche muovendosi tra le ombre dell’antica ritualità e le figure della santità sofferta, tra le tenebre dei rossi e il viola irritante degli arredi”. Poi riprende: «E’ un lavoro lungo, paziente, come è lo scandire quotidiano dei francescani, ma che mi fa sentire artigiano. A me piace essere artigiano. Lo sperimento nella bottega ceramica e lo sperimento qui a casa, certo oggi con più fatica di ieri, ma mi sento artigiano». Il pensiero corre a quella bottega delle mani dove il vasaio crea, ogni giorno, una forma per l’uomo seguendo il suo istinto creativo, a quel maestro decoratore che intinge il pennello nella ciotola colorata per segnare la bianca superficie dello smalto. Esperienze che Pietro ha vissuto con intensità, con gesti e segni inconfondibili, ha portato anche in quel settore la sua “rivoluzione-innovazione” che lascia alla spazio meditazione.
Il silenzio viene ancora interrotto dal maestro: «Io mi ritengo un pittore selvaggio, mi dichiaro non intellettuale, sono istintivo. Quando a poco più di vent’anni ho visto i tagli di Fontana, mi sono emozionato quasi sino alle lacrime. Non ho capito più niente, perché fino allora sapeva che il pittore faceva il melograno, il paesaggio. Quando ho scoperto la tela con tre tagli e poi “attese” sospesi in quel verde, è iniziata la mia trasformazione. Certo oggi c’è l’amarezza di questo percorso selvaggio che mi ha portato anche a delle grandi sconfitte e mi sono isolato, perché vedo che fuori dal mio isolamento non c’è umanità, non c’è autenticità, c’è solo arrivismo ». E ricorda il fascino che prova di fronte ad un’opera di Josef Boys, gli piace il lavoro di Karan Tobri, ammira in modo incondizionato Mimmo Paladino, che «sul piano umano è una persona meravigliosa, un grande artista».
Nei giardini dell’Università di Salerno, dove è stata spostata non molto tempo fa, vi è una scultura di Pietro Lista intitolata “Mnemata”, con riferimento alla memoria dei luoghi contadini che no dove ora è l’Università; per l’artista che aveva assistito all’interventore distrutto delle ruspe, fu naturale costruire un omaggio a quella civiltà rurale. Nacque così la scultura in bronzo che assembla dodici elementi, tra cui un vecchio tavolo, una sedia di paglia, un paio di scarpe e una pianta di ciliegio. «Dodici elementi come gli apostoli, i mesi dell’anno: simboli che ricorrono nella mia pratica d’artista».
“Simposi”, “Cardinali”, “Reti”, “Cielitudini”, “Gabbie” e “Contenitori di luce”, “ Le sculture del diluvio” sono solo alcune tappe del suo lungo e intenso percorso d’artista. Sviluppa una ricerca sul tema delle “Nuvole” e su quello delle “Morandiane”, inteso quale omaggio all’arte di Giorgio Morandi. Dà vita ad una galleria di personaggi inquieti che si muovono come ombre su palcoscenici spogli, scabri, vuoti: sono le “Figure acefale”.
Ma Pietro Lista continua a dirsi un non intellettuale, un istintivo. «Con me la vita è stata benigna, ho avuto quattro figli meravigliosi, sei nipoti straordinari, una vita intensa. Fra non molto uscirà il mio ultimo libro intitolato “Peneide”, un’apoteosi della vita. Mi affascina la luce del sole, il chiasso, la gente e mi dispiacerà lasciare queste cose, il suono, il sapore dell’erba. Quando nacqui non imboccai, come tutti i nascituri, l’autostrada della vita, ma trovai un cancellaletto aperto che dava in un prato con le margherite gialle: sono ancora lì con il sole, il vento…».
Recentemente, lì dove è stato aperto un sottoponte verso il mare al termine della nuova Lungoirno, il maestro ha lasciato un’altra importante testimonianza a Salerno: è una lastra di grandi dimensioni, di acciaio Corten dello spessore di due centimetri: geometrica, fredda, pulita, silenziosa. E’ una testimonianza, un monito, una denuncia contro la violenza sulle donne: su di un lato uno squarcio, una ferita, quasi come se qualcuno avesse pugnalato quella lastra, l’avesse aggredita, infrangendone la purezza, la rigorosa geometria. Quella ferita, simbolica ma dolorosa, richiama la violenza che subiscono le donne.
Il maestro si aggiusta gli occhiali sul naso a nascondere segrete, sorprendenti emozioni che mai ti saresti aspettato in Pietro Lista, poi, quasi in sussurro, dice: «Dentro di me sono un miscuglio tra la felicità e l’amarezza di quest’ombra che comincia ad allungarsi. È una tinta grigia. Mi guardo intorno e sento che vorrei un mondo migliore. Ho pianto quando ho sentito Papa Francesco dire a tutti noi “ascoltate il grido della terra”».