Caro Direttore,
ho letto con attenzione il tuo articolo sul Parco di due numeri fa. Un eventuale rimedio alle assenze di oggi lo può fornire la luminosa presenza del suo primo presidente, perciò propongo delle considerazioni tratte dal volume dedicato ai siti UNESCO ubicati nel Cilento.
Chi l’ha conosciuto ed ha visto all’opera il professore La Valva è rimasto colpito per la competenza dello scienziato e la grande umanità. La sua sensibilità trasformava la conoscenza tecnica in una la feconda testimonianza della rilevante convergenza della relazione tra uomo e paesaggio, da lui trattata con la finezza dell’intellettuale e l’ispirazione del poeta. Si esaltava soprattutto quando aveva la possibilità di narrare il lungo viaggio dell’intricato e intrigante rapporto con le piante da quando l’uomo scopre di poter trarre gratuito nutrimento dal mondo vegetale e lo trasforma in fonte rinnovabile di cibo, opportunità che ha consentito di raccogliere conoscenze e dati non scritti ma registrati nella memoria della famiglia umana.
Egli si è interessato del paesaggio mediterraneo, lago di culture nel quale si affacciano etnie, sistemi economici e testimonianze di civiltà, profilo estremamente variegato per la confluenza di tante storie. La Valva ne ha descritto la specificità delle vocazioni ambientali, ha evidenziato come, in una prospettiva di lungo periodo, siano risultati importanti le relazioni dialettiche tra pianura e montagna sulle quali ha ricostruito le dinamiche che hanno contrassegnato i rapporti tra città e campagna. Nel procedere alla individuazione delle modalità di valutazione dell’ambiente egli ha riflettuto sulla relazione tra piante, uomo e paesaggio. Entusiasmante è la sua lettura storica dell’albero e del suo pervadente influsso sulla civiltà. Nel proporre tesi di etnobotanica di sicuro interesse, affronta problemi di natura etnografica e socio-culturale. La Valva s’interessa anche del delicato tema del disturbo antropico. Egli non lo demonizza, cerca di comprenderne la portata in relazione agli usi tradizionali del territorio, consapevole che la lunga simbiosi tra agricoltura e pastorizia ha prodotto significative diversità biologiche e contribuito alla crescita della capacità di resistenza ed alla eterogeneità del paesaggio. Infatti, una sapiente sinergia consente di utilizzare il territorio per la pastorizia, per l’attività forestale, per l’idrologia e per lo svago, salvaguardando la finalità primaria della conservazione dell’ambiente.
Egli ha sempre considerato il Parco promotore ed animatore di cultura, finalità divenuta preminente soprattutto dopo che il Cilento si è visto assegnare dall’UNESCO l’ambito ma impegnativo riconoscimento di patrimonio dell’umanità. Da qui deriva la responsabilità di custodirlo nel modo migliore, salvaguardare e valorizzare un bene riattualizzandone i valori di fondo e mostrare che non è solo un’emergenza archeologica o ambientale, ma una realtà vitale per chi ha la pazienza e la sensibilità di rivolgerle delle domande e ricercare risposte di senso.
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Ho immaginato di intervistarlo. Le risposte – tratte da suoi libri e conferenze – animano la fantasia per immaginare un drone che sorvola il Cilento per descriverlo mentre in rapidissima successione scorrono i fotogrammi.
Caro presidente, come è iniziata la creazione di uno spazio che, lentamente ,ha trasformato la dimensione naturale?
Immaginiamo il paesaggio nel quale operavano gli abitanti della Grotta della Cala o del Riparo del Poggio presso Camerota quando sbarcavano navi fenicie, o il nauseabondo fetore delle paludi nel Vallo di Diano prima delle bonifiche romane, una avventura di conoscenza possibile grazie all’esame dei pollini fossili. Erano passati migliaia di secoli e i discendenti di Lucy aveva imparato a rapportarsi col Popolo verde per l’approvvigionamento alimentare. Prateria, foresta, palude, deserto, piante, frutti, foglie, radici – preistorici supermercati – erano oggetto di osservazione a fini alimentari e officinali, persino per motivi rituali. Ancora oggi si cita la nostra papagna e l’uso che ne facevano le madri per calmare figli irrequieti perché, in mancanza di asili nido, li dovevano tenere a spalla quando lavoravano. Orzo, segale, miglio e grano stimolarono l’osservazione delle spighe, si procedette a selezionare tentando ibridazioni che determinarono enormi conseguenze per il positivo impatto demografico. Mentre cresceva la popolazione, si compresero i vantaggi dell’impianto del giardino, decantato da tante epopee inneggianti alla Dea dell’Amore. Si rinsaldava così il legame tra piante e uomo e si moltiplicavano le leggende; sacerdoti, sciamani-giardinieri, coltivavano piante miracolose perché capaci di guarire. Foglie, fusti, radici o frutti consentivano di sopravvivere anche nelle aree più impervie. Con le piante si cominciarono a costruire tetti, pareti, pavimenti, lance, frecce, corde, cerbottane, zappe, aratri, carri, barche, ami, cesti, piatti, pentole, giare, otri, bicchieri, posate, selle, stuoie, armadi, sedie, tavoli, chitarre, tamburi, flauti, gomme, oli e resine, papiri, libri, collane, anelli, vestiti e statue per stimolare la passione per il bello e far fiorire la civiltà. Pastori-agricoltori-boscaioli utilizzarono con perizia il fuoco per rimodellare il lussureggiante ambiente dando inizio alla trasformazione del paesaggio, tuttora in atto. La dinamica evolutiva della vegetazione conferiva alle coste un assetto semi-naturale soggetto a crescente antropizzazione quando i monaci Italo-Greci nel VI secolo dell’era cristiana cominciarono a operare.
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Che dire della navi orientali nei porti velini o sotto Porta Marina a Poseidonia?
Evocare questi luoghi significa ammirare i dipinti delle tombe, odorare la rosa di Paestum, ammirare il granato. La Tomba del Tuffatore ripropone alla nostra attenzione questi elementi: maestosi cedri, querce sacre, una palmetta, un frassino consacrato a Poseidone. Il melograno, probabilmente dalla Persia diffuso nel bacino del Mediterraneo, da sempre ha evocato la fecondità di vita senza fine, motivo per cui i fiori sono dipinti sulle lastre tombali. Il frutto, plasmato nell’argilla, si trasforma in piccoli oggetti votivi insieme ad altri che sembrano copia delle capsule di papavero, mentre la Donna Fiore, simbolo augurale di fertilità e di abbondanza, conferma la perfetta interazione raggiunta tra uomo e natura e che trova la sua ultima diramazione nella venerata statua della Madonna del Granato. Le città crescono e si espandono facendo aumentare il bisogno di spazio inteso sia come suolo fertile che come aree edificabili. Parallelamente cresce il bisogno di legno sia per le case che per i mezzi di trasporto, in special modo per quelli marittimi. Il legno è a portata di mano in antichi e vetusti boschi di leccio, di querce, di pini, di cedri, di faggi, di abeti.
L’umanità è rapidamente cresciuta dopo 8000 anni di agricoltura. Approdati nella città, l’agricoltore e l’artigiano misero a frutto le loro conoscenze botaniche continuando osservazioni e sperimentazioni. Il paesaggio non era molto dissimile dall’attuale con uliveti terrazzati scintillanti nelle brezze primaverili, con le messi dorate di giugno e gli orti, frutteti, agrumeti, le greggi al pascolo lungo le coste ripetutamente incendiate, allora non considerato un dolo perché ritenuta una gestione eco-compatibile. Infatti, il fuoco impediva alla macchia mediterranea di chiudersi attorno ai pascoli vicini agli uliveti ed ai campi di cereali.
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Nel Seicento l’Europa sperimenta un periodo di guerre, fame ed epidemie, situazione alla quale si cerca di porre riparo sfruttando al massimo il territorio al punto da trasportare a spalla zolle di terra per riempire gli aridi terrazzi dei pendii. Come cambia il paesaggio?
Le colline si arroccano e fanno spazio ai terrazzi mentre s’infittisce la rete dei tratturi per facilitare le comunicazioni. Il suolo tende ad impoverirsi dove la pendenza rende minacciosa l’acqua piovana per l’assenza della primigenia copertura vegetale del manto erboso; ruscelli e torrenti impetuosi rendono difficile governare il regime delle correnti. Intanto generazioni di uomini continuano a concimare l’ulivo, il fico, farro e grano, scegliendo le colture più adatte al particolare microclima della zona. Anche le greggi sono associate in questa economia primaria che combatte contro la siccità o la palude realizzando mirabili opere d’ingegneria. Ma col passare dei decenni anche gli ulivi abbarbicati sui terrazzamenti delle colline devono subire le conseguenze di un ennesimo esodo. La miseria insopportabile rende appetibile l’incognita del viaggio per le Americhe o verso le fabbriche sorte a Nord delle Alpi. Campi e terrazzamenti, non irrorati dal sudore dell’uomo, fanno spazio alle vecchie piante insieme ad altre. Muta di nuovo ambiente e clima per adattarsi a parametri evolutivi in rapido mutamento. Prende corpo un processo che con la speculazione edilizia e la cementificazione determina un minaccioso inquinamento collegato all’effetto serra. Gli spazi superstiti sono occupati da piante provenienti da altre terre e questa ibridazione colpisce il nostro immaginario collettivo.
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Potrebbe brevemente descrivere questo fenomeno?
Mentre le città sembrano assediate dalla spinosa robinia di provenienza americana, che si segnala per la forza invasiva, i boschi cambiano composizione e il grigio-bruno di tronchi e foglie morte nel periodo invernale diventa più esotico per la presenza di piante sempreverdi, in precedenza confinato in parchi e giardini. Così le palme, importate per abbellimento, risultano concorrenziali con specie indigene. S’introduce una biodiversità in precedenza anche in precedenza per l’arrivo della temperatura e l’aumento dei giorni di gelo. Intanto erbe esotiche infestanti attaccano campi e colture, oltre a un parassiti provenienti d’oltreoceano, mentre tendono a scomparire i papaveri, la gramigna e il fiordaliso. Tutto ciò condiziona il processo evolutivo con ritmi sempre più accelerati. Così l’uso di diserbanti ei loro residui per pressione selettiva determinano un’accelerata resistenza nelle erbe infestanti. Ma la natura non rimane inerme, ma tenacemente pone ripara ai danni prodotti dall’uomo. Produrre ulteriore biodiversità come, ad esempio, la bellissimaGenista cilentina , neo-endemismo puntiforme scoperta da poco e nota solo presso Marina di Ascea e una stazione a Cefalù in Sicilia. È una specie a rischio perché l’habitat è oggetto di ripetuti e reiterati incendi pur se all’interno del Parco.
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Una ultima domanda sul platano a Velia ieri ed oggi.
Nei dintorni della città di Parmenide resiste una delle ultime stazioni del meridione d’Italia in cui vive, spontaneamente, il Platanus orientalis ; bisogna andare nella Valle dei Templi ad Agrigento per trovarne un’altra. Entrambe sono vicine a città di origine greca. Il platano era sacro proprio ai Greci per cui è lecito ritenere che siano stati loro a portarlo nelle loro migrazioni, pianta pienamente integrata nel nostro sistema naturale.
Oggi non esistono più i platani che, con olmi e pioppi, facevano ombra nelle piazze; i maestosi alberi di roverella, di noce, di gelso, che proteggevano le abitazioni nelle campagne sono stati sostituiti da esotiche conifere dai diafani colori. Questa mancanza di ombra e di frescura, che per millenni ha infuso pace e serenità, allontana sempre più dall’agorà per una feconda considerazione ed una pacata discussione. Il nostro immaginario collettivo, la memoria, la tradizione popolare, si vanno dissolvendo e sfumando; rischiano di scomparire se le nuove generazioni, distratte dal vortice dei media e da una cultura preconfezionata e non partecipata, generi la pigrizia della ragione e la fretta di futuro sempre più cose.