Domenica scorsa la liturgia della Parola ha invitato a riflettere sulla simbologia legata al mare e sul sentimento di paura che può generare. Nel passo del vangelo a colpire è l’atteggiamento personale di Gesù, come egli reagisce al grido di aiuto.
Una retta esegesi presuppone la conoscenza del contesto culturale che condivide il Maestro con i suoi paurosi discepoli barca. Questi pescatori di lago hanno poca familiarità col mare. A condizionarli è l’eco di racconti ripetuti da generazioni. La loro cosmogonia descrive un oceano incombente da ogni dove, che può risultare anche una minaccia per la terra, la sua favolosa forza può causare tremende tempeste. Inoltre, si era convinti che l’oceano fosse popolato di mostri, come induce a ritenere l’episodio di Giona, che ha lasciato una scia di attualità nella letteratura.
Ne consegue che, metaforicamente, il mare-oceano rappresentasse anche l’insieme delle forze del male. Ma i fedeli israeliti, e tra questi ovviamente Gesù, credevano fermamente che Dio creatore era padrone anche del mare, di conseguenza ne può disporre, come si legge nei Salmi, a suo piacimento. Questa premessa aiuta a comprendere l’intenzione dell’evangelista, che descrive Gesù adagiato su un cuscino addormentato, mentre i marosi sconquassano la barca. Egli ha fede nella Provvidenza del Padre, un evidente contrasto rispetto al terrore degli apostoli. Lo si desume anche dalle parole che costoro rivolgono a Gesù: «Maestro non t’importa che moriamo?». Si evince che, certi della fine, il loro è l’atteggiamento di chi ha perso ogni speranza.
Il mare ha sempre suscitato in loro immagini e pensieri di una forza che l’uomo non riesce a domare, elemento imprevedibile per cui con i salmi biblici i più pii tra loro sono abituati a prega il Signore perché li liberi dalle «grandi acque», dal «grande abisso» dove Egli aveva precipitato il Leviatano. I flutti profondi portavano morte perché soltanto Jahvè è capace di tenere testa alla forza tremenda e misteriosa della enorme massa delle acque oscure, rassicurazione che leggevano nel libro di Giobbe.
L’esperienza che stanno vivendo ha generato in loro un grande paura, che diventa metafora della condizione umana. Infatti, da sempre l’uomo è circondato dall’angoscia collettiva e tormentato da quella individuale. È una situazione che abbiamo vissuto e ancora ci accompagna dopo oltre un anno di pandemia, catastrofe che incombe sull’intera civiltà, dimensione del nostro quotidiano. Essa trova riscontro nel racconto evangelico che descrive le reazioni degli apostoli (Mc 4,35-41).
Le parole che pronunzia Gesù – «Perché siete così paurosi»? – potrebbero risultare provocatorie e superflue data la situazione che stanno vivendo discepoli impegnati a combattere col vento e le onde su una fragile barca che sembra stia affondando. Ma non è necessario trovarsi in situazioni così straordinarie per sentire l’eco di queste parole del Signore; infatti, la paura percorre il nostro quotidiano. Molti dei nostri incontri con gli altri sono caratterizzati da diffidenza ed apprensione per la mancanza di fiducia nell’interlocutore. La cronaca quotidiana è scandita da episodi incresciosi per paura della malattia, timore di ladri, terrore per l’eventuale prospettiva di cadere in miseria. Anche quando, per una sensazione di insperato ottimismo si è capaci di esorcizzare queste ansie, rimane pur sempre l’ineludibile assillo della morte, che non spiega, ma assomma tutte le altre paure, al punto che un pensatore come Heidegger ha asserito che, tra paure, vittorie e sconfitte, l’uomo è un «essere per la morte».
La capacità di metabolizzare avvenimenti e situazioni oltre il limite dell’umana sopportazione, come la morte di tanti bambini innocenti, magari solo per mancanza di cibo, le atrocità di certi delitti, quando nel baratro della disperazione riteniamo che Dio continui a rimanere in silenzio perché insensibile al grido di dolore delle sue creature, allora acquistano salvifico senso le parole rivolte da Gesù agli apostoli: «Perché siete così paurosi? Non avete ancora fede?». Egli risponde con una domanda alla pressante richiesta di aiuto. Lo fa per sollecitare un atteggiamento di fiducia, che diventa credibile proprio perché, rivolto al “grande abisso” in tempesta, subito comanda: «Taci, calmati!». Egli è pronto a salvarci in ogni circostanza, ma sollecita la nostra fede perché credere vuol dire essere pronti a contare su Dio e sulla sua potenza anche quando il gorgo del mare in tempesta sta per chiudersi su di noi.
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