L’avvento del World Wide Web ha segnato l’inizio di una nuova epoca caratterizzata dalla conquista, talvolta illusoria, della libertà di espressione, dell’accesso a informazioni illimitate e della possibilità di conservare la memoria di ogni evento passato.
Ma se tale conquista trova spesso un limite nelle contraddizioni proprie del Web, che cosa accade quando un Paese filtra le informazioni, censura e controlla Internet?
E’ il caso della Cina, dove il Partito comunista è riuscito ad asservire il Web alla politica di propaganda del governo, grazie al fatto che i servizi di accesso alla rete sono gestiti in prevalenza da compagnie cinesi in modo da mantenere il controllo sul flusso dei dati nell’ambito del territorio nazionale.
Il gigante dell’Oriente, noto per le dure repressioni adottate nei confronti dei dissidenti e dei difensori dei diritti umani, continua a oscurare o bloccare social network, app e motori di ricerca, impedendo alla popolazione di accedere liberamente a Internet: i siti e i social non graditi al governo di Pechino vengono disattivati o sostituiti con servizi analoghi creati dalle aziende cinesi, alimentando così l’illusione che le informazioni circolino liberamente nel Paese.
L’applicazione sistematica della censura diviene rimozione del passato quando opera sulla memoria pubblica cancellando eventi fondanti dell’identità di un popolo, come nel caso del divieto in Cina di commemorare la grande ondata di protesta dei giovani che il 4 giugno 1989 culminò a Pechino in piazza Tienanmen.
Nel 1978 Deng Xiaoping assunse la guida della Cina mostrandosi disponibile a riconoscere gli errori di Mao Zedong e a modernizzare il Paese. Nonostante i risultati raggiunti in ambito economico grazie al via libera degli investimenti stranieri e all’arrivo delle più moderne tecnologie, in Cina si diffuse il Movimento per la democrazia, fortemente critico nei confronti della dirigenza del Partito comunista. Deng condannò il Movimento rendendo chiaro al mondo che la modernizzazione del Paese non avrebbe previsto alcuna riforma politica, poiché qualsiasi richiesta di apertura democratica sarebbe stata negata.
Tuttavia, all’inizio degli anni Ottanta, i crescenti contatti economici con i Paesi Occidentali, influirono sulla diffusione in Cina di una nuova ventata di libertà: studenti e intellettuali tornarono a parlare con insistenza di democrazia, giungendo così alla manifestazione di Tienanmen. Com’è noto, quando gli studenti decisero di non abbandonare la piazza, il governo e la dirigenza del Partito scelsero la linea della repressione, così l’esercitò entrò in azione e provocò una strage.
Sebbene siano passati 32 anni da quel massacro, Xi Jinping, attuale presidente della Repubblica popolare cinese senza limiti di mandato, continua a essere l’artefice di una politica autoritaria che si esplicita anche attraverso il ricorso alla rimozione di quella memoria collettiva incentrata sul dissenso nei confronti della leadership comunista.
Il governo cinese, dunque, non solo continua a censurare le informazioni che riguardano l’anniversario del 4 giugno e a impedirne le celebrazioni sul territorio nazionale, ma, di fatto, ha anche bloccato la veglia di Victoria Park a Hong Kong, tradizionale sede della commemorazione delle vittime di Tienanmen, dichiarandola un atto politico non autorizzato.
Anche se la polizia locale ha chiuso il parco, la libertà di coscienza di molti cittadini ha prevalso tramite gesti simbolici: sono stati accesi lumini, candele e torce di cellulari ai margini di Victoria Park per preservare il ricordo di Tienanmen come simbolo dell’attivismo presente nel Paese in favore della libertà e della democrazia.
Ancora una volta, nonostante il rafforzamento del sistema di controllo e censura di Internet, la narrazione del “sogno cinese” di Xi Jinping è stata smentita dalla rete globale e dalla resilienza degli attivisti per la democrazia.
Ilaria Lembo