La festa del Corpus Domini presuppone una fede robusta per accettare la presenza reale di Cristo sotto le specie del pane e del vino. Aiuta la ritualità tradizionale della processione con i gesti significativi della festa, canti e addobbi floreali inneggianti all’Eucarestia. Ma per il secondo anno consecutivo tutto ciò non è stato possibile per i rischi pandemici determinati da un microscopico virus. Eppure la solitudine interiore di tanti, di troppi, sollecita l’esperienza eucaristica per ravvivare il senso di comunità.
Nel brano evangelico proposto domenica scorsa si è letto il racconto dell’ultima cena secondo l’evangelista Marco, esperienza emotivamente molto intensa vissuta da Gesù, che sa di essere braccato e di non poter fare affidamento su tutti gli apostoli. Nonostante gli evidenti rischi, egli predispone perché la cena pasquale possa celebrarsi. Procede con circospezione, come prova il segno convenuto della brocca d’acqua portata dall’uomo incontrato dai due discepoli incaricati di preparare il necessario; infatti, di solito erano le donne a fare quel lavoro.
A tavola Gesù compie gesti particolari e pronuncia parole per celebrare la nuova alleanza con la sua comunità. Di questo episodio si conservano quattro racconti, tre nei sinottici e il più antico nella prima lettera ai Corinzi. Si riportano le parole da lui pronunziate e la sua intenzione è chiarita dai suoi gesti. L’azione rituale del pane azzimo sulla tavola pasquale, benedetto perché dono di Dio, spezzato e distribuito, diviene fin da principio il distintivo dei cristiani obbedienti al comando: «Prendete, questo è il mio corpo», dono che Gesù fa delle sua intera vita. L’evangelista sottolinea che al calice «bevvero tutti»; quindi l’Eucarestia è dono per tutti, nessuno escluso perché non è premio per i giusti, ma farmaco per i malati, empatica sintesi della storia della Salvezza. Viatico per i peccatori, esso prelude al banchetto nuziale del Regno, dove Gesù, il Risorto, mangerà e berrà con noi il vino nuovo della vita divina.
Nella festa del Corpus Domini la Chiesa sollecita la contemplazione, l’adorazione e la celebrazione del mistero eucaristico del quale viene fatta memoria il giovedì santo e quando si celebra la messa. La Frazione del pane, gesto tipico della cena ebraica, è utilizzato da Gesù che, come capo della mensa, benedice, spezza e distribuisce. È un rito così caratteristico che consente ai discepoli di riconoscerlo quando appare loro dopo la risurrezione, gesto umanamente e cristianamente ricco pur nella sua semplicità. Infatti, si ripete ogni giorno su tutte le tavole imbandite dalle famiglie riunite per condividere il cibo. Perché questo dono potesse accompagnare l’umanità, Egli affida ai discepoli il compito di perpetuarlo per creare comunione ed unità. Prendete, questo è il mio corpo, è un ordine chiaro e preciso; Gesù non chiede di contemplare, ma manifesta il desiderio di stare sempre tra noi come dono, pane pronto a divenire cellula, respiro, pensiero. E’ Vita che partecipa della nostra esistenza, comunione che assorbe il nostro cuore per consolidare l’auspicio di divenire ciò che si riceve e sperimentare la tenerezza e la fecondità dell’Eucarestia.
Nel contemplarla, i cristiani sono invitati a cantare nell’intimo del cuore: Alleluja, Gloria, Amen. Non solo, ma anche riflettere sulla sua vera funzione per convincersi della sua salvifica necessità soprattutto oggi. Aiutano le parole pronunciate da papa Francesco nella Basilica di San Pietro. Egli auspica di percepire la “la sete di Dio” per evitare di sperimentare aride celebrazioni liturgiche. Ma questa sete, commenta pensieroso il pontefice, oggi in molti “si è estinta”, di conseguenza si è persa la via che porta al Signore e la disponibilità, come l’anonimo uomo del vangelo, a prestare al Signore la camera più bella della sua casa perché vi celebri il sacramento, una “una sala grande” con le “porte aperte” per cui “tutti possono entrare”, immagine della vera chiesa di Gesù. Essa non può essere “un circolo piccolo e chiuso”, ma “una Comunità con le braccia spalancate, accogliente”, pronta e felice di far entrare “qualcuno che è ferito, che ha sbagliato, che ha un percorso di vita diverso” per condurlo alla gioia dell’incontro con Cristo. La Chiesa non è “dei perfetti e dei puri”. “L’Eucaristia vuole nutrire chi è stanco e affamato lungo il cammino”. L’umanità assetata ha bisogno di questa sorgente d’acqua viva per dissetarsi e rigenerarsi. Quindi, per celebrare l’Eucarestia occorre sentire la sete di Dio e riconoscere che non possiamo farcela da soli, accettare di camminare in compagnia di “Colui che dona la vita nuova, che nutre di speranza affidabile i nostri sogni e le nostre aspirazioni, presenza d’amore che dona senso e direzione al nostro pellegrinaggio terreno”. Non è sufficiente accontentarsi di essere parte del “gruppetto dei soliti che si radunano per celebrare l’Eucaristia”. Nostro compito è “andare in città, incontrare la gente, imparare a riconoscere e a risvegliare la sete di Dio e il desiderio del Vangelo”, riconoscere la presenza di Dio “ umile, nascosta, talvolta invisibile, che ha bisogno di un cuore preparato, sveglio e accogliente per essere riconosciuta”.
L’Eucarestia suscita stupore ed invita all’adorazione perché Dio non chiede nulla ma dona tutto. Perciò i cristiani non possono partecipare alla solenne liturgia se mantengono chiuso ai fratelli il proprio cuore. Infatti, non si può mangiare questo Pane se non si condivide il pane con l’affamato e le sofferenze di chi è nel bisogno. Ora “le nostre Eucaristie trasformano il mondo nella misura in cui noi ci lasciamo trasformare e diventiamo pane spezzato per gli altri”.
La conclusione dell’omelia di Francesco diventa urgente invito alla nostra chiesa locale a divenire “una Chiesa con la brocca in mano, che risveglia la sete e porta l’acqua”, spalancare il cuore nell’amore “per essere noi la sala spaziosa e ospitale dove tutti possano entrare a incontrare il Signore”, Se pronti alla compassione e alla solidarietà, attraverso di noi tutti possono vedere e sperimentare la grandezza dell’amore di Dio.
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