I villaggi abbandonati sono una costante nel corso della storia.
Meno costanti, invece, sono le ragioni dell’abbandono, che possono essere diverse tra loro o possono coincidere e decidere di accanirsi contro una stessa realtà, per lo più rurale.
Uno dei motivi della fuga degli abitanti nelle epoche precedenti quella industriale, forse tra i primi che ci vengono in mente, è di certo la guerra. I superstiti di un piccolo villaggio (che a volte consiste in pochi casali sparpagliati tra i campi) difficilmente decidevano di restare a ricostruire dopo una devastazione. Più facile era di certo cercare fortuna altrove, magari verso il centro abitato o la città più vicini.
Altra cagione di villaggi fantasma erano i disastri naturali, come terremoti o inondazioni, e, fatto a noi molto familiare, le epidemie. Dalle grandi epidemie in età classica (peste di Giustiniano nel VI sec.), passando per la Peste Nera del 1348 e per tutti i focolai successivi più o meno violenti, le epidemie sono state causa di fuga della popolazione, ma non nel senso che ci aspettiamo.
Certo, la popolazione moriva e anche con una certa facilità. Eppure, per quanto possa sembrare strano, a volte non era l’epidemia in sé a svuotare un insediamento.
A contribuirvi era soprattutto l’aspetto fiscale.
Cerchiamo di capire come seguendo uno degli studi di Francesco Senatore, professore ordinario di Storia Medievale presso l’università Federico II di Napoli.
Dunque, bisogna premettere che in epoca medievale e fino all’età contemporanea, per censire una popolazione la si suddivideva in fuochi. Un fuoco (o più poeticamente “focolare”) era l’unità fiscale che poteva comprendere un’intera famiglia. Le tasse, quindi, non erano calcolate tenendo conto dei singoli membri, ma in base allo sforzo produttivo complessivo del nucleo familiare (come lo chiameremmo noi).
A un certo numero di fuochi corrispondeva una certa somma che entrava regolarmente nelle casse del Regno di Napoli (in questo caso). Ma cosa accadeva quando scoppiava un’epidemia di peste come quella di metà ‘300 o quella del tardo ‘400.
Come primo impulso, una famiglia raccoglieva armi e bagagli cercando di recuperare il più possibile, comprese le travi di casa, e si dava alla macchia. Però, a quel punto, sorgeva un problema: Poiché la tassazione era spesso forfettaria, ovvero basata su una media di fuochi presenti (non venivano certo effettuati censimenti ogni anno!), succedeva che chi sceglieva di rimanere si ritrovava a pagare per tutto villaggio, anche se si era mezzo svuotato.
Da qui nasce tutta una serie di documenti, definiti suppliche, che rimbalzavano tra le città e il governo centrale per chiedere il riconteggio, una proroga o addirittura uno sgravio fiscale. Provvedimenti che talvolta venivano presi anche alla chetichella, per non dare adito ad altri villaggi di fare altrettanto.
In molte di queste suppliche, ad ogni modo, il problema della peste veniva sì toccato, ma l’accento veniva posto più che altro sul vero disastro che poteva attirare l’attenzione del fisco reale: lo spopolamento. In altre parole, quello che emerge ai nostri occhi come reale conseguenza di un disastro (come stiamo avendo modo di osservare quotidianamente) non è tanto il dramma umano in sé, quanto le contraddizioni insite nelle strutture sociali e in quelle istituzionali, che hanno l’abitudine di venire fuori ed accentuarsi proprio in un momento di crisi, come il magma che si fa strada quando incontra una crepa nel terreno.
Anche in provincia di Salerno e in Cilento abbiamo esempi di villaggi abbandonati in diverse epoche e per diverse ragioni. Uno studio archeologico preliminare mostra addirittura uno spopolamento “a cascata”: Paestum venne abbandonata dagli abitanti esasperati dal progressivo impaludirsi del terreno circostante e la conseguente comparsa della malaria, al di là delle frequenti incursioni saracene. I fuggitivi andarono ad infoltire il nucleo di quella che sarebbe diventata la Capaccio medievale, o come veniva chiamata Civitas Caputaquae, (= città al capo delle acque o al capo del fiume, ndt). Peccato che venne rasa al suolo da Federico II in seguito alla rivolta baronale del 1246 e l’esodo continuò ancora per sette chilometri più a sud rispetto a dove si trovava, riuscendo a trovare pace fino ad oggi.
Per non mutuare troppi esempi dall’antichità, il fenomeno dello spopolamento è oggi evidente in molti piccoli villaggi dell’entroterra del Cilento e del resto della Campania. E le ragioni non sono molto cambiate rispetto ai secoli passati. Forse si sono solo complicate.
Eppure molti di essi sono tutt’ora in piedi, come in attesa di un cambiamento di direzione.
Il ritorno ad un’economia agricola, turistica e a bassa intensità potrebbe essere la chiave per una nuova esistenza. I vecchi paesi spopolati potrebbero essere addirittura una soluzione agli insoluti (o mai affrontati) problemi dell’accoglienza e dell’integrazione legati ai flussi migratori.
Gli storici del futuro forse si ritroveranno, guardando al nostro XXI secolo, ad osservare un fenomeno di ripopolamento, al posto del classico abbandono, e potrebbero concludere che non solo si mostrava necessario, ma addirittura inevitabile.
Bibliografia
Francesco Senatore, “Survivors’ Voices: Coping with the Plague of 1478-1480 in Southern Italian Rural Communities”, in Disaster Narratives in Early Modern Naples. Politics, communication and culture, ed. by D. Cecere, C. De Caprio, L. Gianfrancesco, P. Palmieri, Roma, Viella, 2018, pp. 109-126.
Scavi medievali a capaccio vecchia (prov. salerno). (1974). Archeologia Medievale, 1, 265. Retrieved from https://search.proquest.com/scholarly-journals/scavi-medievali-capaccio-vecchia-prov-salerno/docview/1298015758/se-2?accountid=12669
Foto di copertina tratta da ilcilentano.it
Francesco Di Concilio