Sono passati nove anni da quando Aung San Suu Kyi, l’attivista per la democrazia in Birmania, riuscì a ritirare ufficialmente a Oslo il Premio Nobel per la Pace, che le era stato conferito nel 1991, per i suoi instancabili sforzi compiuti a sostegno dei diritti umani e della pace. In quell’occasione pronunciò un discorso in cui auspicava l’impegno di ogni individuo e nazione a percorrere il cammino che condurrà il mondo verso la realizzazione di una “comunità umana più sicura e generosa”, pur nella consapevolezza che “la pace assoluta è un obiettivo irraggiungibile”.
Oggi questo cammino, colmo di fiducia e speranza, capace di liberare gli oppressi dalla loro condizione di isolamento, sembra aver subito l’ennesima battuta d’arresto: il primo febbraio l’esercito birmano ha attuato un colpo di stato che ha rovesciato il governo di Aung San Suu Kyi, arrestata con l’accusa di brogli elettorali che sarebbero avvenuti alle elezioni dello scorso novembre.
A guidare il golpe è stato il generale Min Aung Hlaing che ha istituito il Consiglio di Amministrazione dello Stato come organo esecutivo della giunta militare, di fatto organo di governo del Paese.
La Birmania o Myanmar, ex colonia britannica, è un paese a maggioranza buddista, dove la coesistenza tra le molte nazionalità etniche presenti nel Paese è tutt’altro che pacifica. Il Myanmar è stato a lungo sottoposto a un regime militare, cessato soltanto nel 2015, quando si sono svolte le prime elezioni libere nel Paese; in quelle consultazioni la Lega Nazionale per la Democrazia, guidata dalla leader San Suu Kyi, riuscì ad affermarsi.
Tuttavia, ci sono stati momenti in cui la stessa leader birmana non ha saputo opporsi alle azioni dell’esercito, come è accaduto nel 2019, quando, di fronte al Tribunale penale internazionale dell’Onu all’Aja, ha difeso i militari birmani dalle accuse di massacro dei Rohingya, minoranza musulmana presente nello stato di Rakhine.
Al momento la Birmania è sprofondata in uno scenario da guerra civile: la tregua, in parte accettata dai movimenti indipendentisti delle minoranze etniche e dalle autorità birmane, durante gli anni di governo di Aung San Suu Kyi, si è ormai spezzata evidenziando quanto il processo di pace fosse fragile e pieno di ostacoli.
Dopo il recente colpo di stato, infatti, l’esercito ha intensificato la repressione nei confronti della popolazione che manifestava e continua a protestare in favore della democrazia: in molte zone del Paese l’esercito ha aperto il fuoco sui civili, ha compiuto centinaia di arresti e ha messo in atto raid aerei in luoghi occupati da gruppi armati etnici, provocando sfollati, feriti e vittime, il cui numero accertato è salito a oltre 500.
Che cosa ne sarà di questo Paese del sudest asiatico noto per la bellezza dei suoi paesaggi e per il fascino della sua cultura?
Sarà possibile arrestare questa escalation di violenza e riprendere il cammino della pacificazione e della democratizzazione?
La resistenza della popolazione birmana non sarà facilmente piegata dalla repressione dell’esercito golpista: in ogni epoca storica, di fronte alle dittature più schiaccianti, i popoli hanno dimostrato di saper reagire e trovare il coraggio di perseguire la pace e i valori democratici. Il movimento di disobbedienza civile non arretra e sceglie come simboli di protesta il saluto con indice, medio e anulare alzati, ispirato alla saga di “Hunger Games”, e i fiori lasciati in luoghi pubblici in ricordo delle vittime della repressione.
Resta ancora da capire quanto l’ONU sarà in grado di incidere nella risoluzione della crisi birmana, anche se l’inviata speciale nel Myanmar, Christine Schraner Burgener, ha recentemente sottolineato l’urgenza di cambiare il corso degli eventi nel Paese attraverso azioni significative per scongiurare un imminente bagno di sangue.
Ilaria Lembo