Per il secondo anno consecutivo la Costiera Amalfitana, come ogni località d’Italia, in rispetto delle norme antipandemiche, è costretta a rinunciare ai riti della settimana santa e in specie alle processioni, a quelle emozioni che coinvolgono il mondo cattolico. Riti immutati nel tempo, echi di un passato remoto giunto intatto sino a noi, insieme alla fede dei padri.
In Costiera amalfitana in specie – come in quella sorrentina – i riti di maggiore emozione cristiana si svolgono il venerdì santo, giorno della parasceve in cui si commemora la Crocifissione e morte di Cristo, parte centrale della teologia della salvezza e preparazione alla rinascita della domenica di Pasqua.
Anche se la primavera offre i suoi primi, timidi assaggi i riflettori dell’estate vacanziera, quella che invade i paesi della Costiera Amalfitana, sono ancora spenti, ma la domenica di resurrezione è comunque una sorta di prova generale che in quest’ansa del golfo di Salerno significa aperture delle seconde case, incontri di vecchie amicizie, frequentazione di alberghi e ristoranti, “affollamento” di spiagge e litorali per una passeggiata al primo caldo sole. Invece le stradine antiche, protagoniste dei fasti della gloriosa prima Repubblica Marinara, gli infiniti gradini in ascesa verso case aggrappate alla roccia, raccolgono solo una dimiata solarità e, di sera, la pacata luce dei lampioni; cento finestre ancora infreddolite occhieggiano nelle sere di una primavera appena iniziata e, per il secondo anno, più “fredda” del solito.
Ma la mente, sospesa tra nostalgia e speranza, ritorna ai riti del venerdì sera, “Santo” per la liturgia cattolica, in cui tutto si abbuia, tutto scompare facendo posto alla struggente emozione che invade le anime dei paesi e degli uomini a ricordo della passione e morte di Cristo. Riti che si snodano per sentieri erti cui sovrasta il verde e giallo dei limoneti e il viola fogliato del cercis siliquastrum: l’albero di Giuda. Alto, nel cielo costiero, eco d’un tempo remoto, s’alza il canto dei battenti: “Sento l’amaro pianto / della dolente Madre / che gira tra le squadre / in cerca del suo Ben”. Tutto tace, zittisce anche la risacca sulle spiagge o contro le rocce precipiti e la notte s’illumina di mille, rosse fiammelle. S’alza l’antico “discanto” con lenta cadenza nell’incedere processionale: “Sento l’amato Figlio / che dice: Madre addio, / più fier del dolor mio / il tuo mi passa il sen”.
Quello dei cantori-battenti è un peregrinare per le vie del paese, con soste nei luoghi religiosi disseminati un po’ ovunque a testimonianza di antica religiosità; si stringono a cerchio in slarghi e piazzette formando gruppi corali: alta è la voce solista, si accodano sommesse le altre a intreccio di grande suggestione.
Sono pressoché uguali le processioni del Venerdì Santo in Costiera Amalfitana, anche se a Minori si comincia già dalla sera del giovedì, subito dopo il rito della messa in “Coena Domini”. La teoria di battenti parte dalla Congrega del SS. Sacramento, pervade il paese e termina a notte fonda nella settecentesca chiesa madre ove si venera Santa Trofimena, patrona della cittadina. Poche ore e già all’alba del venerdì inizia l’altra “peregrinatio” degli incappucciati, con le loro dissonanze di dolore, che percorre il paese per l’intera mattinata. A sera, poi, la processione con il Cristo morto: il paese s’abbuia lasciando a migliaia di tremule fiammelle il compito d’illuminare la tristezza dell’evento. I canti s’alzano solenni, oltre le teste dell’enorme folla, invadendo un silenzio grondante di mistero: rispetto e riflessione per un evento unico nella storia dell’umanità.
Nella vicina Amalfi, intanto, il mesto corteo del Cristo morto si affaccia al fastigio della monumentale teoria di gradini della Cattedrale, immaginifica “scala caelestis” di Giacobbe, come ebbe a definirla Dieter Richter; si spengono le luci della città, si abbassano le serrande dei negozi: retto da confratelli a capo coperto scende il funebre giaciglio col Cristo morto, cadenzando nel passo canti di dolore nati dalla penna di Jacopone dei Benedetti da Todi ed entrati da subito nella melodica popolare: “Stabat Mater dolorósa / iuxta crucem lacrimósa, / dum pendébat Fílius”. (Sta la Madre dolorosa / presso il legno lacrimosa /mentre pende il Figlio); si snoda la processione illuminata da fiaccole lungo vie e supportici traboccanti storia della città marinara; si proietta la mente a quegli anni della storia in cui “Contra hostes fidei semper pugnavit Amalphis” così come riportato su un grande pannello in ceramica accanto agli antichi arsenali. Giunge la processione di celebranti e fedeli alla chiesa dell’Addolorata, quasi immaginario sepolcro ove il riposo della morte è vigilia della Resurrezione: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere». Scandalo puro, blasfemia! per i ciechi nell’anima.
A Positano si celebra il rito della “schiodazione”, emozione profonda, ricca di fede e pietà. Dall’ambone dell’evangelo, con il fascino solenne del canto gregoriano, il Diacono annuncia: “Passio Domini Nostri Jesu Christi secundum Joannem”, il racconto delle ultime ore del Nazareno: un brivido sottile percorre la schiena. Entrano, al termine del canto, gli incappucciati portando i simboli della Passione: il martello e le tenaglie per togliere i chiodi, il bianco lenzuolo della Sindone, il letto funebre sul quale adagiare il Cristo morto. Novello Giuseppe d’Arimatea, il parroco batte il martello sui chiodi da sfilare dalle mani del Crocifisso, scivolano sul viso le lacrime del silenzio. Poi, il lento procedere della processione, delle mille, tremolanti fiammelle che si inerpicano lungo strade aduse alla gioia della vita, al sorriso dell’estate, ai mille idiomi del mondo. Ondeggia la statua del Cristo morto, ondeggia quella della Madre Addolorata: “Priva del caro Figlio / Madre, tu sei restata / afflitta e sconsolata / immersa nel dolor” cantano i confratelli vestiti del bianco camice cinto da rozza corda a ricordo di flagellazione.
Una tradizione musicale, quella dei canti dei battenti, mai scritta ma giunta sino a noi per trasmissione orale, di padre in figlio ed oggi patrimonio del Ministero dei Beni Culturali, grazie allo studio del maestro Roberto De Simone. Certamente una “liturgia minore”, ma piena di mistica espressività e di pietà cristiana, capace di sopravvivere compostamente, senza contaminazioni di sorta, nell’alveo dei canti propri della Chiesa. Forse, in questa purezza di identità è l’accorrere della gente, non solo locale, che partecipa ad un mistero, durante il quale si narra, nello stesso istante, di morte e di vita.
Saltano, anche quest’anno, questi riti della tradizione cattolica nel loro svolgersi sul territorio, tra la gente raccolta a memoria di evento antico, ma anche a sentimento di fede. Resta nel chiuso dell’anima di ognuno il racconto della ri-creazione dell’uomo dopo quel “Tutto è compiuto” nel passaggio dal tempo finito della vita, alla vita senza tempo. Ritornano alla mente i versi della lauda di Jacopone: “Quando corpus moriétur, / fac, ut ánimae donétur / paradísi glória”.
Vito Pinto