Nel nostro immaginario culturale la parola cibo, oltre a essere un elemento ricorrente nel panorama artistico-letterario, è comunemente espressione di piatti dai sapori indimenticabili, di tentazioni irresistibili, di momenti di convivialità e socializzazione, di lavoro e professionalità.
Ma che cosa accade quando questa parola, cui è legata l’arte culinaria italiana, diventa oggetto di scherno sui social?
Come ogni aspetto delle nostre vite, ormai anche il cibo è diventato protagonista dei social media. Difficile per molti resistere alla tentazione di “postare” foto e selfie scattati prima di iniziare a mangiare, magari anche solo per solleticare la curiosità e l’acquolina in bocca di chi abitualmente utilizza i social network.
Il legame ancestrale e la passione che proviamo nei confronti del cibo e della cucina rappresentano aspetti fondamentali della nostra identità culturale. Possiamo ripercorrere la nostra storia regionale, nazionale e familiare proprio attraverso l’evoluzione del linguaggio culinario, costituito da una sua specifica grammatica, fatta di conoscenza delle materie prime, di scambi culturali, di ideazione di ricette, di acquisizione di tecniche fino ad arrivare alla capacità di generare e veicolare piacere nel momento in cui una pietanza è servita a tavola.
Ma il cibo è soprattutto memoria: ci permette di immergerci nei ricordi, di provare una nostalgia pungente, di assaporare il passato, emozionandoci. Chi non ha mai sperimentato una simile presa di coscienza nell’avvertire il profumo di una pietanza o nel compierne il primo assaggio, come accade nell’episodio della madeleine proustiana?
E allora ecco perché ci indigniamo o non capiamo appieno le ragioni della burla gastronomica recentemente messa in atto sui canali social da utenti australiani, a seguito della decisione dell’Italia di bloccare l’esportazione verso l’Australia di 250mila vaccini AstraZeneca.
A dare inizio alla protesta in chiave culinaria nei confronti del blocco dell’export di vaccini è stato un tweet del giornalista del Guardian Australia, Naaman Zhou, in cui l’autore annunciava la sua intenzione di spezzare e condire delle linguine con una “salsa alla carbonara” composta di panna a meno che l’Italia non avesse acconsentito a rilasciare le dosi del vaccino in questione.
A questo messaggio ne sono seguiti numerosi altri con fantasiose e ardite rivisitazioni di ricette tradizionali.
Certo, di questi tempi, appare sciocco scandalizzarsi per una simile provocazione messa in atto a colpi di tweet, tanto più che l’ironia è garanzia di libertà espressiva e ci rende più sopportabile affrontare l’attuale contesto pandemico.
Tuttavia, il rapporto col cibo non è mai neutro: è un modo di comunicare la propria identità e, di conseguenza, si ha la tendenza a difendere le proprie tradizioni e specificità culturali.
Sul cibo, dunque, bisogna stare molto attenti: oltraggiare alcune ricette tradizionali italiane, colpendo l’identità stessa del nostro Paese, ancora fragile nell’attuazione del piano vaccinale, rende questa schermaglia against Italian ingredients and recipes non una burla, bensì una manifestazione di povertà d’intelletto e di malcelata insensibilità. Gli autori dei tweet, infatti, hanno ignorato che la decisione del Premier Draghi, peraltro avallata dall’UE, è stata presa con l’intento di far rispettare le consegne dei vaccini da parte delle aziende produttrici secondo i numeri stabiliti nei contratti.
Perché allora avviare una simile protesta se perfino il primo ministro australiano, Scott Morrison, ha riconosciuto la gravità della crisi che attanaglia l’Italia e l’Europa?
In fondo, nel corso della storia, il rapporto tra cibo e politica è sempre stato molto stretto: guerre, accordi, trattative e paci sono spesso iniziati a tavola o hanno determinato, per ragioni di propaganda politica, il venir meno di certi prodotti d’importazione, alimentando vecchi rancori tra Nazioni.
Perciò non dobbiamo stupirci se nell’era della globalizzazione e dei canali social venga fatto un uso pubblico del cibo volto a sminuire, apparentemente in modo innocuo, i tratti caratterizzanti dell’identità di un popolo.
Forse dovremmo semplicemente lasciare che le nostre ricette continuino a parlare attraverso le eccellenze agroalimentari, la loro storia e il loro utilizzo in cucina, ricorrendo certamente anche alle tecnologie digitali, ma tralasciando quella parte becera che talvolta rischia di prendere il sopravvento nella comunicazione in Rete.
Ilaria Lembo