Quel 23 che compare avanti ad un locale a fronte strada in quello slargo che da Piazza Mons. Grasso si appresta al cavalcavia di Mercatello a Salerno, non è solo il numero civico di uno spazio dove artisti di varia estrazione espongono le loro opere in mostre collettive o personali d’arte.
Quel civico 23 è anche lo spazio metafisico, e se vogliamo immaginario o immaginifico, di un fare cultura pur tra mille limitazioni strutturali, sociali, umane: ed è come sottolineare il non volersi arrendere al contingente, lasciando che la fantasia, l’impresa d’arte, le iniziative di cultura continuino a proliferare incuranti dei limiti pandemici, spaziali e temporali, di quelli, soprattutto, mentali della gran parte di gente molto spesso distratta da una infinità di mass-media molto propensi più all’apparire che all’essere. Testimonianza viva è che si è riusciti a fare spettacolo anche con il virus in proliferazione, con il malanno universale, facendo diventare eroi-protagonisti quella pletora di scienziati la cui esistenza sinora si ignorava completamente.
Qui, invece, al civico 23 si fa cultura in silenzio, come deve essere perché il clamore non disturbi la meditazione d’arte, la riflessione su parole, immagini, segni, cromie che concorrono, al di fuori delle banalità e tra le provocazioni artistiche, a conciliare l’animo dei fruitori con il resto del mondo.
Ed è così che viene pensata, strutturata, confezionata una scatola di cartone, largo contenitore ove trovano spazio opere di 23 artisti, in rispondenza al civico nel quale i curatori, Gianni Capacchione, Angelo D’Amato e Rosario Mazzeo, si sono costituiti in No-Profit Art Space.
Una scatola semplice per una nuova proposta di lettura d’arte, una sorta di collettiva da portarsi tutta intera nella propria abitazione, una rivista-oggetto a detta dei curatori (numero zero di una serie di pubblicazioni come si confà ad un prodotto editoriale) o “rivista-assemblata” come l’ha definita Antonio Baglivo, eminenza grigia dell’operazione, che vuole porsi come comunicazione diversa di un progetto forse de ja vu (vedi poesia visiva o mail-art) ma che ha il carattere del piacevole, dell’interessante (anche se non tutte le opere possono entusiasmare) per l’insieme di nomi, chiamati da Baglivo, da varie parti d’Italia. Così, Ilia Tufano affida a grandi lettere applicate su bianca superficie a spruzzi di colori, il suo messaggio segreto, come quello da scoprire tra la sequenza di righe stamp-arte di Carmine Lubrano titolate “Gl’ossa (per totem etrangie di Antonin Artaud)” dove “C’è l’insolenza, muffa in disarmo di teatranti mascherate in quarantena…”. Con una delle sue introspettive, Antonio Baglivo presenta “l’estraneo inseparabile da me”, quasi a corona di quel graffito domestico con il quale Giancarlo Piovanelli presenta “l’uomo col il piede bianco”. Sono “infiniti mondi possibili” quelli di Angelo D’Amato, mentre è un “intricato intimo” l’opera di Pina Della Rossa. La sequenza non si conclude con l’intervento di Ruggiero Maggi, anche se, a pie’ d’opera, l’artista scrive “nonostante tutto sento di ricevere, accettare e assorbire la bellezza”. Ma cala, inesorabile, il rosso sipario proposto da Gaetano Paraggio in una di quelle sue foto emblematicamente senza tempo.
Si chiude la scatola 23, di cartone, numero zero di un progetto in divenire dove vari linguaggi possono, anzi, devono incontrarsi per un diverso e continuo sentire culturale. Dice Baglivo dall’alto della sua esperienza di arte nuova (noti e ricercati i suoi ibridi-libri) “è il primo passo di un laboratorio aperto al quale ogni artista partecipa con una propria opera”. Una scatola dove sono state racchiuse opere di pittura, grafica, fotografia, stampa, linguaggi nuovi che stimolano la fantasia e l’estro degli autori, ma anche l’immaginario di chi ne fruisce. Scrivono i curatori “vuole essere il volano per un percorso di sperimentazione e di innovazione, almeno per ciò che attiene al carattere nomade, pubblico e istituzionale della rivista/oggetto”. E quel “nomade” si pone come parte di un cammino, che può essere vissuta in spazi privati, personali, meditando su ogni singola opera, in silenzio e tranquillità, paragonando in ragionamenti un’opera da un’altra e di fronte al personale contesto culturale e sociale.
Un progetto, quindi, che trasuda compartecipazione, intendendo trarre fuori “dalla palude dell’indifferenza” quella forza trainante della società in evoluzione e del buon vivere comune che si chiama “cultura”.
Vito Pinto