Il nostro rapporto col bosco, per quanto sempre più sfibrato, è saldamente fissato nella nostra lingua e nella nostra cultura. Parole come foresta, selvatico, imboscare, non solo denotano un concetto, ma anche una relazione: la foresta è ciò che sta ‘fuori’ dall’abitato, è il selvatico, l’incontrollato, e ciò che “naturalmente” contrapponiamo al domestico. Le prime foreste sono comparse sulla Terra circa 350 milioni di anni fa, e da allora hanno avuto a che fare con ogni tipo di avversità: eruzioni vulcaniche, incendi, terremoti, inondazioni e glaciazioni. Le coraggiose famiglie degli alberi, degli arbusti, delle erbe, dei muschi e dei fiori hanno atteso pazientemente che condizioni climatiche adeguate si stabilissero per la loro espansione, e tuttavia, quando la loro storia si è incrociata con quella degli uomini, a stento sono riuscite a difendersi dal fuoco, dall’agricoltura, dal pascolo e dall’edilizia. Da allora ad oggi, la società umana ha impresso orme indelebili nell’ecosistema bosco, mentre quelle creature silenziose, senza fretta, inesorabilmente, instillavano nella nostra coscienza lezioni che da sempre vale la pena di scoprire. Nell’anno della mia terza liceo, ebbi l’opportunità di recarmi con una compagna e sotto la guida del nostro docente di Religione, Don Damiano Modena, presso il Monastero di Bose, in provincia di Biella, di cui era allora priore Fr. Enzo Bianchi, fondatore della comunità. Il Monastero si trova immerso tra i boschi della serra morenica d’Ivrea, e fuori dalle attività, non obbligatorie, di partecipazione alla vita della comunità, mi piaceva assumere l’aria della penitente spirituale, andando in cerca di risposte altre da quelle che lì, fratelli e sorelle di fede, cercavano di suggerirci. Distesa nei campi, ai piedi delle Alpi, non diversamente da quanto accadeva nei primi giorni dell’umanità, interrogavo, con una religiosità antica, i grandi alberi, manifestazione mitica di una presenza divina che raccoglieva a sè abissi, terra e cielo, nell’intricato disegno delle radici, del tronco e dei rami della chioma. Quando si studiano le religioni del passato, si incontrano spesso esempi di culto reso ad alberi che venivano considerati sacri, ed in particolare al più venerato di essi, l’Albero cosmico. L’Albero cosmico è forse uno dei miti più sorprendenti, più fecondi e anche più universali che l’umanità abbia concepito per spiegare la costituzione dell’universo e il posto che l’uomo vi deve occupare. In Mesopotamia si ergeva il Kisanku, di origine celeste; era la dimora del dio della fertilità, dell’agricoltura e delle arti, ed in particolare della scrittura. Dall’albero della vita mesopotamico discenderà, peraltro, quello che secondo la Genesi, cresce in mezzo al giardino dell’Eden per accogliere Adamo e dalle cui radici nascono i quattro fiumi che irrigano il paradiso terrestre. Non mi sembrava pertanto di fuggire ai precetti di un credo battesimale cristiano, se nella maestosità di quel sistema perfetto, riuscivo a leggere la lezione della vita: come gli alberi anche l’uomo cammina e si radica alla terra, ma tiene alto lo sguardo verso il cielo. Come alberi attraversiamo le stagioni dell’esistere, ed il pianeta ci è nutrimento e dimora. In uno scambio costante fatto di respiri, raccontiamo la nostra storia. Di ritorno a casa, la vegetazione del Parco sostituì quei grandi maestri piemontesi. Non mancavano di certo gli scenari: la regione Campania è interessata per più di un terzo della sua superficie dalla presenza del bosco, e nella sola provincia di Salerno ben sei foreste (Calvello, Persano, Cuponi, Mandria, Vesolo, Cerreta Cognole) ci fanno da polmone. Sebbene quello del Cilento, Vallo di Diano e Alburni, sia un territorio rinomato per lo più per la sua fascia costiera, le aree interne, dominate dai monti Cervati, Alburni, Gelbison, Bulgheria, Stella, per menzionarne alcuni, si colorano della straordinaria varietà della macchia mediterranea, accogliendo circa 1800 specie diverse di piante autoctone spontanee. Ai piedi del mio monte, la montagna della Stella, sono il tessuto dei boschi sempreverdi e i giardini degli uliveti a delineare il paesaggio come mediamente addomesticato, ma questo cortile apparentemente ordinato, non manca di stupire lo sguardo di un osservatore attento. In località Monaco, a San Mauro Cilento, piccolo borgo dell’entroterra, anch’esso seduto alle pendici del Monte Stella, la proprietà del Sig. Petillo nasconde ad esempio un segreto di secolare bellezza: un olivo secolare, la cui spettacolare chioma, aperta ad ombrello, fa ombra alla carie del tronco, come è tipico delle piante di questa varietà. Presente nell’albo degli alberi monumentali della Campania, istituito dalla legge n.10/2013 in materia di tutela ambientale, questo patriarca della natura campeggia, con i suoi 580 cm di diametro del tronco, sulla collina circostante, parlando agli occhi e allo spirito di resistenza ed eternità. Lo stesso racconto che, forse, ascoltò Giambattista Vico a Vatolla, dove si vuole che il filosofo napoletano, assiso proprio sotto una pianta di olivo, trascorresse i momenti di riposo dallo studio, in una benedetta inoperosità. Grazia immobile eppure viva, gli alberi, in quella loro società dei boschi, del tutto ammirevole rete di diversità, ci insegnano l’arte della presenza, e la magia della comunità.
Francesca Schiavo Rappo