Civita di Bagnoregio è un borgo medievale costruito su uno spuntone di roccia nel mezzo di una valle di tufo e lava pietrificata nel mezzo della Tuscia viterbese. Ciò che rende peculiare la frazione dell’antica Bagnorea, a parte il suo fascino intrinseco di testimonianza storico-archeologica, è il fatto che sia tata soprannominata “la città che muore”.
In parte perché si è svuotata costantemente nel corso dei secoli, anche se non del tutto; in parte perché l’altopiano di tufo su cui è poggiata si sta ritirando poco a poco. Un fenomeno naturale dovuto all’erosione del vento e fiumi che, nella sua irreversibilità e senza escludere l’impatto umano, condanna il borgo a una inesorabile scomparsa.
Senza andare troppo lontano, magari facendo capolno dalle pendici delle valli fluviali che si poggiano dolcemente sulla piana del Sele, possiamo ammirare un fenomeno analogo.
Come accolto da un nido urbano rappresentato dai comuni di Battipaglia, Eboli e Olevano sul Tusciano, un piccolo sistema collinare si erge nelle estreme propaggini dei monti Picentini. Anch’esse, al pari del promontorio bagnorese, sono interessate da un fenomeno erosivo evidente seppur di matrice in parte diversa.
Ad agire, in questo caso, è un ruspante lavorio di scavi e appiattimenti che ha reso lo skyline dell’entroterra simile ad un quadro di Minecraft, il videogioco dalle forme cubitali in cui puoi, detto in soldoni, distruggere e ricostruire il paesaggio a piacimento.
L’agente erosivo, in questo caso, è soprattutto umano e l’aspetto della ricostruzione, a differenza del videogame, al momento non è contemplato.
La questione che le colline alle spalle del Castelluccio, la fortezza normanna che vigila sonnecchiante sulla piana, hanno in comune con la futura scomparsa del borgo della Tuscia si può riassumere in una domanda: quando accadrà?
Vista la rapidità dei lavori nella cava, infatti, la questione tempo diventa pressante. Quando si fermeranno gli scavi? Se si fermeranno. E se non si fermeranno, le colline scompariranno, un giorno? Gli abitanti di Battipaglia e Olevano sul Tusciano potranno salutarsi semplicemente agitando la mano da lontano?
Potremmo lasciare, come suol dirsi, ai posteri l’ardua sentenza, ma questo vorrebbe dire ignorare un disastro ambientale in atto che ne potrebbe causare altri in futuro. E chissà se i posteri a quel punto, invece di sentenziare, saranno troppo occupati a contare i danni.
I movimenti terra che interessano le colline sono quotidiani. La pietra preziosa: sabbie inerti per materiali edili, quindi praticamente tutto quello che si riesce a tirar via dalle pendici.
La sensazione che si ha, guardandole da lontano, è quella di un enorme gomma che, un giorno dopo l’altro, cancella una striscia di collina, lasciando intatte solo le parti su cui sorgono i tralicci dell’alta tensione, ormai topper di gigantesche torte multistrato e senza glassa.
La questione si fa preoccupante se si tiene conto che gli ultimi decreti regionali, risalenti al 2016 e al 2018, impediscono alla ditta che porta avanti i lavori, l’Inerti Adinolfi s.r.l., di delocalizzare le attività oltre i 10000mq da cui era partita, e gli scavi erano stati più volte fermati per irregolarità amministrative. O ancora, che due sentenze del Consiglio di Stato (la notizia è dei primi giorni del 2021) hanno ancora una volta negato l’ampliamento e la delocalizzazione della cava.
Ad arginare gli squarci, sempre secondo i decreti, è stata la messa a coltura dei terrazzamenti con piantagioni di olivo, operazione che porta con sé il sapore di una spazzata sotto il tappeto per salvare le apparenze.
Ma la gran parte della superficie sterrata è occulta agli occhi dei valligiani che si limitano, spesso, ad alzare gli occhi e poi scuotere la testa guardandosi le scarpe in un’espressione di fatalismo e impotenza.
All’ombra degli escavatori, dei camion e delle ruspe, tuttavia, un formicolio di soggettività popola in silenzio i sentieri che travalicano i colli: da chi corre per sport a chi passeggia; dai coltivatori di olivi ai pastori che conducono il gregge a tosare le ampie praterie. Per non parlare degli edifici risalenti al medioevo, di cui abbiamo accennato, e della biodiversità della macchia mediterranea, già messa a dura prova dalla presenza di due discariche bonificate per metà.
Il fine settimana i colli del Castelluccio sono letteralmente popolati di cittadinanza in cerca di svago e di aria fresca, ma quello che trovano, di volta in volta, è un pezzo mancante dell’enorme puzzle. I tornanti e i sentieri si ricoprono di un bisogno evidente di vivere il territorio anche in un altro modo. Le colline potrebbero essere il polmone verde di un’area di industrie e coltivazione intensiva, il parco cittadino che solleva, letteralmente, l’individuo ad un grado più vivibile di esistenza, fatto di passeggiate, pedalate, escursioni storico-naturalistiche e aree relax con vista mare o valli fluviali.
Invece, le colline che accompagnano il Tusciano nel suo corso continuano a scomparire. Come la loro sorella che si trova in Tuscia (nemmeno a farlo apposta), d’altronde, ma con la grossa differenza che quest’ultima lo farà soprattutto con la dignità di chi accetta un verdetto della natura, mentre per le prime l’esecuzione e la tortura sono eseguite sistematicamente e senza appello dal più sconsiderato dei boia.
Francesco Di Concilio