Non dirò niente sulla qualità del lavoro artistico di Sergio Vecchio. C’è chi più competente di me ne parlerà dopo. Del resto, dalla mia prospettiva culturale più volte ho scritto in passato su tale dimensione. Né mi dilungherò sull’altro suo versante di attività pubblica, quella di animatore culturale e attivista politico di alto profilo. Se non per registrare con qualche soddisfazione la presa di impegno del sindaco Alfieri che ha parlato prima di me, di portare a termine finalmente un progetto di sistemazione dei materiali d’archivio raccolti da Sergio in tanti anni di appassionato collezionismo scientificamente organizzato intorno a Paestum. Io credo che tali materiali esposti insieme potrebbero costituire un monumento da affiancare a quelli archeologici noti, rafforzando così l’attenzione e la fama che consegnano Paestum al ristretto Olimpo di siti archeologici di altissimo valore universale. I materiali di Sergio esposti con cura scientifica e passione documentaria potrebbero costituire un monumento sulla Modernità che si è interrogata per secoli sui monumenti archeologici. E sarebbe il miglior premio a una vita intera dedicata a tale compito. Ahimè, consegnato post mortem. Ma mentre accolgo con soddisfazione l’impegno del sindaco, sono costretto a ricordare che Sergio Vecchio raccolse per decenni insieme ai documenti vivi della sua collezione, un’incredibile stratificazione degli impegni che vari politici sistematicamente presero e sistematicamente non mantennero per le ragioni più varie ma coincidenti con la mancata corrispondenza tra impegno e realizzazione. Io spero – posso solo esprimere una speranza – che questo ennesimo impegno poco fa ascoltato sia l’ultimo della lunghissima serie di impegni presi, ma anche il primo realizzato.
Voglio aggiungere una nota personalissima a queste mie brevi considerazioni. Conoscevo Sergio dagli anni in cui quasi portavamo i calzoni corti. Sono felice, oltre che onorato, di aver avuto con lui un rapporto che si è persino rafforzato nel corso dei decenni, ciascuno di noi due preso dalla sua attività, ciascuno attento a reciproche suggestioni e persino contaminazioni. Ci siamo “ritrovati” molte volte ed io, sempre pronto a prendere da lui ciò che poteva offrirmi in termini di suggestioni culturali, ho offerto le mie modeste capacità di analisi culturale del mondo umano per suggerire punti di vista antropologicamente significativi. Ma erano momenti in cui più che offrire io prendevo, poiché avevo, con lui, la possibilità di approdare a percorsi e assumere sguardi che a partire da Paestum interrogavano senso e significati profondi e universali. Ed erano i momenti che mi permettevano di cogliere il valore morale della sua amicizia, poiché Sergio era persona dalla quale non solo io ma chiunque lo avesse incontrato prendeva lezione per il suo rigore morale, per la sua radicale onestà umana, e per il suo inflessibile ascolto della voce autentica del suo daimon, esempio e monito per chiunque avesse una passione e inseguisse un obiettivo. Qualche giorno prima della sua morte pranzai con Sergio e con un organizzatore di eventi culturali italiano residente in Portogallo, che gli avevo presentato e con il quale andammo a parlare con Gabriel Zuchtriegel, direttore del Parco archeologico di Paestum e di Velia, per un progetto che ahimè la morte di Sergio interruppe. Durante questo pranzo, che inflessibilmente Sergio volle pagare, disdegnando ogni tentativo di compromessi “alla romana” (e la generosità non solo pubblica e “politica”, ma anche privata, “spicciola” di Sergio è un’altra delle sue virtù su cui mi piacerebbe indugiare), l’ospite portoghese che ascoltava quasi silenzioso la parola incantata di Sergio, colse l’incandescenza quasi profetica della sua visione, e non poté fare a meno di dirmi, un momento prima di salutarmi al predellino del treno con cui ripartiva, che non aveva parole per ringraziarmi e per esprimere la sua soddisfazione di aver conosciuto una persona di tale qualità. Fu l’ultima occasione, l’ultima di numerose, in cui riuscii a intendere con chiarezza che laddove c’era intelligenza e qualità negli interlocutori di Sergio, la sua cristallina figura culturale rifulgeva. Rimanendo quasi invisibile invece quando aveva a che fare, ahimè quanto spesso in certe fasi della sua vita, con la mediocrità.
Voglio concludere questo mio intervento con una poesia. Che dedico a Sergio e a Bruna, che oggi ne raccoglie la sua eredità e che con una determinazione e un piglio che quasi richiama eroine del mondo classico, è decisa a portala avanti fino al compimento del sogno di Sergio. È una poesia di Carmen Yáñez, vedova di Luis Sepùlveda, morto di Covid qualche mese fa. si intitola “Eravamo così felici e non lo sapevamo”
Ignoranti della luce che circondava l’innocenza eravamo così felici amore mio,
con il calore delle nostre mani unite
attraversando tutte le strade
e ridendo degli ostacoli di pietra o grandine
che volevano fermare quella nostra corsa irresponsabile di felicità.
Eravamo così felici
e non ci accorgevamo della dimensione della vita.
Dell’invisibile minaccia, dell’ombra lunga
della paura,
noi non sapevamo nulla, insolenti.
Amandoci con previsioni di futuro.
Ora non arrivo a pensare oltre il domani quando aspetto
la prova della tua vita per bocca d’altri.
(traduzione di Roberta Bovaia, in “Potlach” di Casa della poesia: https://www.potlatch.it/poesia/la-poesia-della-settimana/carmen-yanez-eravamo-cosi-felici-e-non-lo-sapevamo-eramos-tan-felices-y-no-lo-sabiamos/)