L’origine dei rituali carnascialeschi affonda le sue lunghe e sottili radici nella proverbiale notte dei tempi, dove i tempi non erano ancora misurati e la notte quasi per niente illuminata, se non da lumi di fuoco e canti che combattevano la paura delle tenebre.
Sono legati, per lo più, al rinnovamento della natura (almeno a certe latitudini), al risveglio del mondo animale e alla ripresa delle attività umane.
Ma, nonostante questo, il carnevale riguarda, più di ogni altra cosa, la morte.
Basta sfogliare poche pagine di quell’enciclopedia delle usanze umane che è Il ramo d’oro, di James G. Frazer, padre dell’antropologia sociale vissuto a cavallo tra il XIX e il XX secolo, per avere una rassegna dei riti che si tenevano, anche in tempi recenti, in diverse regioni dell’Europa occidentale. La cosa che noteremmo subito è che la maggior parte dei rituali si concludeva con il rogo dell’effige del carnevale. Poco importa che questo fosse rappresentato da un fantoccio di paglia o un essere demoniaco pittorescamente agghindato. Il risultato era sempre lo stesso: veniva ucciso e seppellito. Spesso con la complicità di figure demoniache mascherate che eseguivano la sentenza tra il tripudio e l’ebbrezza della folla.
“Negli Abruzzi”, ci racconta Frazer, ad esempio, un carnevale di cartone viene portato da quattro becchini con le pipe in bocca e con delle bottiglie appese alla cintola. Davanti cammina la moglie del carnevale, vestita a lutto, e sciolta in lacrime. […] In una piazza aperta il cadavere della maschera viene messo su un rogo a cui viene appiccato il fuoco al rullo dei tamburi. […] Mentre la folla brucia la folla si tira delle castagne […].
Lungi dal voler trovare una spiegazione al rituale nei suoi più piccoli dettagli, ci viene da domandarci chi sia questa figura che in un momento preciso dell’anno veniva scelta, costruita, prodotta, per essere sacrificata. E, soprattutto, cosa rappresentasse per chi smaniava di vederlo ardere al centro della piazza.
Per dare vita a un tale moto di gioia sfrenata, l’esecuzione del carnevale raccoglieva su di sé le aspettative e le frustrazioni della popolazione. La sua morte era percepita come una vera e propria liberazione, in seguito alla quale un nuovo ciclo vitale poteva avere inizio. O, con il prosperare del cristianesimo, un periodo di digiuno sommesso e preghiera.
In ogni caso ci si attendeva una rinascita che seguiva l’inverno appena trascorso, con tutte le difficoltà che esso comportava.
Era un sacrificio, seppur simbolico, che avrebbe riportato l’abbondanza laddove era venuta a mancare, e poco importa, stando alla casistica delle descrizioni, da cosa fosse realmente impersonato.
Volendo mantenere la direzione comparativista che caratterizzava la ricerca di Frazer, possiamo riflettere su quanto di tutto questo è rimasto in mezzo a noi.
I carnevali contemporanei, o almeno quelli più celebri all’odiens del nostro paese, sono più che altro delle vetrine in cui lo spettacolo prevale sul rituale. Eppure, senza entrare nel merito delle singole realtà, ci deve essere un modo in cui seppelliamo il nostro carnevale, noi persone dell’Occidente europeo del ventunesimo secolo.
In molti casi, scrive ancora Frazer, “la cerimonia dell’espulsione della morte presenta molte caratteristiche simili a quelle del seppellimento del carnevale […]. Festeggiare il carnevale equivarrebbe, quindi, ad esorcizzare anche la paura della morte.
Eppure in mancanza evidente di un vero e proprio rituale, come facciamo a “bruciare” e a “seppellire” tutta questa frustrazione?
O, ancora, torneremo a celebrarlo da attori in maschera e non da semplici spettatori, una volta che potremo scacciare la paura che oggi ci attanaglia nel quotidiano? E come?
Mentre ci pensiamo su, ci facciamo accompagnare gentilmente verso la fine dal nostro antropologo:
Nelle montagne dell’Harz, in Germania – ci informa – alla fine del carnevale un uomo veniva messo in una madia e trasportato, con un corteo funebre, in una tomba. Ma nella tomba al suo posto veniva sepolto un bicchiere di acquavite. La mattina del martedì grasso dell’anno successivo si tirava fuori l’acquavite e, per dare inizio alla festa, ognuno ne assaggiava lo spirito, il quale, è il caso di dire, ritornava di nuovo in vita.
Francesco Di Concilio