Le lancette dell’orologio segnano le 4 del mattino di domenica 21 febbraio 2021. Il tempo si sveglia prima e prima si ritira in sordina, da un anno a questa parte.
Le solite abitudini, dopo un esordio insicuro e altalenante, hanno finito con l’accomodarsi sulla poltrona della lentezza, vestendo per lo più la comodità di un pigiama. Quel “tutto scorre”, eraclitea massima presocratica che ci ricorda l’impossibilità di bagnarci due volte nello stesso fiume e l’inevitabilità dell’evoluzione e del cambiamento costante cui sono soggette tutte le cose, presa per secoli come dato acquisito, scricchiola al vento burianico come su un ramo secco.
“Tutto è fermo, come sospeso”, sembra invece suggerire l’imperante dialettica della pandemia, e il consueto tran tran giornaliero si ripete identico, senza variazioni di rilievo, dalle 5 alle 22. Dopo, per non finire sotto il fuoco nemico, si finisce per lo più sotto coltri di attese.
L’arco della giornata ha perso il suo baleno. Questi numeri, ad indicarci ancora una casellina del calendario da barrare, sono divenuti pura cifra.
Fenomeni di dilatazione e restringimento colpiscono la percezione, fino a caratterizzarsi come un solo evento-tempo, reso così inesistente da spinte contrastanti. Certo, è tutto soggettivo. Eppure l’esperienza del tempo della pandemia è come il ritornello di una canzone: riduce tutto a sé, in quanto solo elemento costante nel variabile sistema delle strofe. Potrebbe risuonare come un’eco che ci rimanda la frase “non si può perché c’è il virus.” Un imperativo che rivolta le abitudini, come un’omelette in padella, per ottenere il piatto risultato di un piatto pasto.
Francesca Schiavo Rappo