«Lontano è il mare, senz’acqua sembra, eterno come gli specchi vuoti. I templi non hanno dato alla civiltà il riposo di prendere un nome, sono rimasti sommersi da questo cielo inaridito in cui ogni pensiero è fisso.»
Così scriveva Alfonso Gatto ne “Il silenzio di Pesto” una prosa che, ricca di liricità, rimanda la memoria a quei territori cilentani dove il poeta si era attardato a guardare particolari di una quotidianità a volte invisibile, lontana dal chiasso vacanziero, pur aprendo i suoi paesi al via vai marino nei giorni dell’estate.
E continuava, il poeta: «Il giallo dei melloni di Pesto offende, è come la parola disordinata vendicativa dei ragazzi dagli occhi chiari e dalle labbra esangui che corrono tra la polvere. L’estate è una pietra immobile nel cuore di Pesto, i carri rossi di pomodori, inverosimili di gridi, rompono a tratti il silenzio che lascia passare il vento». Tempo è passato da quei giorni oltre la metà del ‘900 e nel tempo sembra essersi affievolita la memoria “del tempo che fu”.
Gatto e il Cilento, un rapporto spesso dimenticato, mentre sempre vivo è quello che il poeta ebbe con la “terra dipinta”, un tratto di strada “montuosamente marina”, a richiamo di Francesco D’Episcopo, punteggiata da paesi immaginifici: «un sogno dire queste case vere».
Eppure Paestum, o meglio Pesto come amava chiamarla il poeta, è stata frequentata, amata, conservata da Gatto dentro al suo intimo poetico, con il carico di anni, di storia di miti, leggende, sudori, che rende quella terra unica nel panorama di un’antichità greca. «Scendeva il Mississipi dall’eterno / silenzio degli Alburni verso il mare / dei templi…» e balza la dorica maestosità del tempio a Poseidone, dio del mare, protettore di questa città una volta di mare, dove le rose fiorivano due volte l’anno, quasi omaggio alla sacralità del mito, degli Dei che avevano protetto i nauti della Grecia, che la vollero grande e bella preservandola a trionfo di storia nei millenni sino ai giorni nostri. «Ci furono le rose / un tempo, gli asfodeli. / Ora passa nei cieli / il cielo che rispose alla notte degli anni / alle paludi, ai morti. / Ci restano più forti / del tempo questi inganni / della dolce stagione».
Già, le rose di Pesto, così care anche a Giuseppe Ungaretti, cantore dell’ermetismo poetico. E si chiedeva Gatto: «Sono mai esistite le rose di Paestum? Saranno esistite – rispondiamo – se la storia ne ha tramandato il ricordo e se oggi i curatori della bellezza antica cercano in tutti i modi di ravvivarne il seme. Noi preferiamo dimenticarle, lasciando che rimanga a fiorire solo l’asfodelo, il fiore delle anime vaganti e dei morti. Vivissime e effimere, le rose non si addicono a questo lutto segreto e fermentante alla luce che è nelle cose».
Durante una conferenza in ricordo del poeta che aveva visitato il “suo” Cilento, Giuseppe Liuccio ricordava: «Era una estate lontana. Accompagnai Alfonso al Museo per ammirare la straordinaria scoperta degli archeologi che avevano restituito allo stupore dei visitatori l’anfora ancora intatta nel suo pieno di miele. Ne fu colpito, e a tavola, al “Nettuno”, lo stupore cominciava ad avere i contorni della grande poesia nel nostro dialogo che si rifrangeva lento sui finestroni spalancati sulla grande storia. Tempo una settimana e mi lesse per telefono quei versi bellissimi e solenni insieme “Se credere che il miele nel vasetto / di coccio ne gorgoglia con l’orecchio / che squaglia il suo cerume, con abbaglio/del mare nel dirompere. / Destata, ricordata? / Nella giumella delle mani vuote / il lievito poroso della sete. / Sfrigola l’origliare del suo miele / perpetuo, l’alveare dei millenni”».
Poco oltre Pesto è San Marco di Castellabate, con il suo porticciolo dove barche di antichi pescatori vagolano sull’onda cheta al riparo del molo. Gatto è con la sua donna e ad esaltazione del suo sorriso (ti irrompe sempre nell’intimo il sorriso della donna amata) quasi per continuarlo nel tempo, scrive: «Tu dici: vedi le stelle già morte nel firmamento. / Tu vivi le gioie gioiose dei cenni che giungono a noi. / Eppure all’aprire le arselle, in quel segno finito / che l’unghia penetra, incidi l’ansia di averle, ne succhi / d’empito il gusto e ne ridi. / ….Ancora s’apre all’aperto, / al conto degli occhi, la sola paura d’essere vivi, / mangiando al guscio le arselle, guardando le stelle». Poi, quasi a voler giustificare la magia dell’aprire le arselle con l’unghia, a margine annotava: «La poesia è nata da una situazione reale. A San Marco di Castellabate, verso Punta Licosa, seduti su di un muretto del porto mangiavamo le arselle (le telline) …Ci perdevamo nell’infinito, ma per ritrovarci in quel “segno” delle arselle, in quell’incidere dell’unghia».
L’incidere dell’unghia… lo stesso gesto che fece Salvatore Quasimodo ad Amalfi, nella buccia di un limone colto nel giardino del Cappuccini… “profumo di terra mia” aggiunse dopo averlo odorato.
Un po’ più oltre di Castellabate, s’erge la luminosa Elea, dove il vento del sud ancora conserva e rimanda ricordi di pensieri filosofici, risuona delle parole di Parmenide e Zenone, mentre tra tanti Dei si faceva strada l’inquietudine di un Dio unico a dominio d’universo. Di questa terra di nauti e pensatori Gatto conserva la memoria di una notte d’amore consumata lì dove il mare dei miti bacia la terra del pensiero: «Questa, delle mie mani, della voce, tenerezza di me che non ti giunge / or che partita porti via l’estate, / è ancora il vento caldo che lasciammo / sulla spiaggia d’Elea. / Per una vita di silenzio il cuore / trovò parole e il prenderti per mano / dal mattino sui passi della sera / fu, nel tenerla, meraviglia nuova / d’aprire gli occhi, credere ad un sogno».
D’estate, più di una volta, lasciata Milano alla sua afa estiva, Gatto raggiungeva il fresco del nostro mare. Ricorda Francesco D’Episcopo che passò più di una estate a Palinuro, ospite della figlia Paola e del marito Nicola Trotta, il quale, felice di averlo in quel luogo di riposo, quasi coccolava il suocero. Gatto, dal canto suo, quasi viveva in un incanto le ore estive e, come suo costume, imprimeva sulla pietra della poesia le sue intensità di vita. Scriveva: «Vedemmo l’alba sorgere dal capo / nero di Palinuro, sabbia rosa / d’argento inumidita dai piovaschi / di quella dolce notte. Il giorno aveva / un ardore di polvere raggiante / ai nostri passi. / Il sapore del verde dei tuoi occhi, / l’ulivo, il dolce miele, la capretta / della tua lingua vivida di rosa. / Era del lungo esistere, da sempre, / la luce immediata che deflagra / nella zuffa ridente: dirittura / – a correrla d’un grido – l’avvenenza». Sogni lontani, di un poeta italiano, grande, che aveva come ostacolo l’esser nato meridionale, emigrato al Nord.
E lì in una notte stellata, Gatto rivede il mito di Palinuro, rapito dal sonno al suo timone, perduto tra i flutti di un mare dove la storia è vita quotidiana. «Notte, sirena, viola dell’amore / goduto, donna abbeverata / da quel filo di sete, / non c’è lingua più dolce della quiete. / Forse è il mare che pesca il suo chiarore / o la barca, incantata».
Emozioni che salgono dall’intimo di noi lettori distanti, peregrini in un tempo in cui “dilaga una società senza cultura”. Si sospende l’anima nell’ascolto di armonie in versi, di parole scelte per una terra amata nella sua totalità (e bizzarrìa) da un poeta sornione (a volte) come l’animale di cui portava il nome.
Scriveva: «Nella sera armoniosa che rivela favole calme e sogni al mio passato, l’amore così timido mi svela desideri perduti, quasi il fiato delle prime parole in cui si vela idillio eterno il mondo immaginato».
Ritornano alla mente gli anni della scuola, quando i professori, a richiamo di Shakespeare, ricordavano che “i poeti sono fatti della stessa sostanza dei sogni”.
E Gatto, poeta italiano nato a Salerno, quasi a consegna di testamento, annotava: «Quando si nasce poeti, è difficile morire o è soltanto una distrazione».
Vito Pinto