Le squadre di archeologi al lavoro suscitano sempre in me un sentimento di sconfinata ammirazione. Ha qualcosa di epico, e persino di nobilmente maniacale, quel loro ostinato scavare, scandagliare, riportare alla luce un frammento, raschiare la terra inginocchiati e con il mal di schiena per disseppellire un minuscolo reperto, il segno di una civiltà scomparsa ma che custodisce i luoghi della nostra anima. Ora un film come “La nave sepolta”, tratto da un romanzo di John Preston, diretto da Simon Stone e diffuso da Netflix, mi ha fatto capire, commuovendomi, in cosa consista quella passione assoluta per gli scavi, l’entusiasmo per l’inatteso ritrovamento a Sutton Hoo, alla vigilia della Seconda guerra mondiale, dei resti della nave funeraria di un sovrano anglosassone del VII secolo, nientemeno. Merito di due attori straordinari come Carey Mulligan e Ralph Fiennes, certo. Ma soprattutto del senso di epopea che emana da questa tenace gara a recuperare le tracce del passato, a non perderne nemmeno un pezzetto, per capire da dove veniamo, ciò che di prezioso abbiamo alle spalle. Adoperarsi perché nemmeno un tassello del passato sia disperso: ecco la grandezza dell’archeologia, talvolta considerata qualcosa di polveroso, persino di antiquato. Esattamente il contrario dei fanatici, o dei pasdaran della cancel culture, che infatti il passato lo vogliono azzerare, cancellare, maledire. O come gli assassini fanatici dell’Isis che hanno vandalizzato i tesori di Palmira e ucciso l’archeologo Khaled al Asaad, i cui resti sono stati ritrovati proprio di recente. Dovevano annichilire il passato e chi ne custodiva la memoria per sradicare tutto ciò che non rientrava nella loro folle dottrina di azzeramento della storia. Perciò gli archeologi sono i nostri eroi.