Un respiro profondo. Il cuore batte sempre più forte e, come un ciclista allo sprint finale della sua pedalata, non vede l’ora di giungere al termine di quella corsa di pura ansia. Ancora un respiro. Cerco serenità in un pensiero felice ma la voce della dottoressa mi riporta alla realtà. “Alzi la testa, apra la bocca, cacci la lingua e dica ‘AH’”. Eseguo le sue istruzioni, chiudo gli occhi e in pochi secondi ho superato il primo step. “Ora nel naso. Non si preoccupi, sarò veloce”. Infila il tampone in una narice e poi nell’altra. Avverto subito un fastidio, il mio organismo prova a ribellarsi. Faccio di tutto per trattenere la tosse. Resisto. Resisto. Resisto ancora. Non ce la faccio più. Tossisco. “I risultati saranno pronti questa sera dopo le 20.30”, mi dice la dottoressa congedandomi.
Torno subito a casa.
Le ore che mi separano dal verdetto sono interminabili. Lo smartworking mi permette di buttarmi a capofitto nel lavoro. Cerco di scacciare ogni singolo pensiero negativo dalla mia mente. Non è facile.
Mi accorgo che la famosa anosmia di cui tanto si sente parlare comincia ad insinuarsi nel mio organismo. Sto perdendo il senso dell’olfatto. Qualcuno prova a confortarmi: “Sarà solo un raffreddore”. Nell’arco della giornata metto il mio olfatto alla prova più volte. Nel tardo pomeriggio mi accorgo che quell’odore fortissimo e penetrante della candeggina posso sentirlo a malapena. Capisco che qualcosa non va.
Sono le 20,35 del 4 novembre. Arriva la telefonata del dottore del laboratorio analisi. Sono positiva al Covid 19.
Mille dubbi e brutti pensieri affollano la mia mente. E se ho contagiato qualcuno?
Il mio fidanzato e i miei suoceri un giorno prima di me hanno saputo di essere positivi.
Mia madre con me.
E mio padre? Mia sorella? Il resto della famiglia? Chi ho contagiato? A chi ho fatto del male?
Torno indietro con la memoria ai giorni precedenti. Chi ho incontrato? Scrivo dei nomi su un foglio. In quali occasioni li ho incontrati? Avevamo la mascherina? Eravamo in un luogo aperto o chiuso? Per quanto tempo siamo stati a contatto?
So che il giorno seguente riceverò una chiamata dall’ASL e dovrò rispondere a molte domande. Non voglio farmi trovare impreparata. Devo essere precisa, non lasciare niente al caso.
La notte passa lentamente, troppi pensieri si accavallano nella mia mente. Dove ho sbagliato? Quando ho abbassato la guardia? Chi mi ha infettata? Pensavo di essere stata attenta. E ora? Cosa succederà? Mi aggraverò? E i miei cari?
Paura e impotenza: questi i sentimenti di ogni singola notte.
L’alba del nuovo giorno tarda ad arrivare e non porta con sé belle novità. Mi accorgo di aver perso completamente il senso dell’olfatto e almeno al 90% il senso del gusto. Potrei mangiare plastica o polistirolo e non accorgermene.
Nella prima mattinata arriva la telefonata del medico curante che prontamente mi interroga su sintomi e stato di salute. Mi indica di assumere determinate medicine e mi dice di voler preparare il certificato per la malattia. Lo fermo. Ho bisogno di lavorare, sarà faticoso ma non voglio darla vinta al virus. Mia madre, prima di me, ha preso la stessa decisione: stoicamente affronta la malattia e il lavoro con la serietà e il senso di profonda responsabilità di un’insegnante consapevole di non poter abbandonare i propri preziosi alunni.
Dalla stanza affianco la ascolto parlare ai “suoi” bambini della lezione del giorno come se niente fosse successo.
Mi chiedo se le farà bene lavorare o se tutte quelle ore avanti al computer, tra lezioni mattutine e meeting pomeridiani, non la stancheranno troppo. La mia mente mi da una risposta che non mi piace.
Decido di allontanarmi.
Cerco conforto nel sole caldo che scalda la veranda. Mi siedo. Chiudo gli occhi e ancora una volta scavo nella memoria alla ricerca di un ricordo felice. Torno indietro di qualche mese, a quando, con il mio fidanzato, abbiamo deciso di sposarci. Ripenso ai progetti e ai sogni fatti. Gli stessi progetti che, a causa del Covid, sono saltati e sono stati riprogrammati più volte. Forse troppe.
Mi sento sfortunata. Capisco che dovremo rinunciare anche all’ultima data scelta (dicembre). “Non credo riusciremo a sposarci a breve”, gli dico in videochiamata whatsapp fingendo una serena rassegnazione. “Non è detto”, mi dice lui provando a confortarmi. “Aspettiamo di negativizzarci tutti e poi ne riparleremo”, conclude saggiamente, trovandomi d’accordo.
Le giornate trascorrono a passo di lumaca. Sono scandite dalle telefonate e dai messaggi delle persone care.
Non smetto mai di studiare il mio corpo: come sta reagendo al virus? Nei primi giorni noto molte differenze: innanzitutto anosmia e ageusia, poi colpi di tosse sempre più frequenti, così come un senso di affaticamento e spossatezza uniti ad affanno. Cerco di controllare la mia mente: non ho sintomi gravi, non devo allarmarmi. Capisco che per i giorni a venire dovrò mantenere uno stile di vita “slow”, lento. Mi dico che mi basterà essere paziente e che, con il tempo, di questo periodo resterà solo un brutto ricordo.
Dopo le prime 2 settimane comincio a sentirmi meglio. Il senso del gusto e dell’olfatto cominciano molto lentamente a tornare. L’affanno pian piano scompare. La stanchezza, invece, sembra non volermi proprio abbandonare.
Intanto l’ASL ci informa che nessun altro della nostra famiglia è rimasto contagiato.
Dopo qualche altro giorno scopro di essermi negativizzata. E, come me, anche il mio fidanzato. Mia madre e i miei suoceri restano ancora positivi. “Ancora un po’ di pazienza”, ci dice il dottore dell’ASL.
La pazienza non manca. Ma il senso di impotenza si fa sempre più forte dentro ognuno di noi. Positivi o negativi poco importa.
Una volta scoperto di essere negativa ripenso continuamente alle ultime settimane trascorse. A chi ci è stato accanto con messaggi d’affetto e telefonate quotidiane, a chi si è reso disponibile ed è andato a fare la spesa per noi sempre attento a non farci mancare nulla, a chi ci ha fatto qualche sorpresa portandoci doni, segni preziosi di affetto ed empatia.
I sentimenti che affliggono l’animo di una persona positiva al Covid sono difficili da spiegare.
L’ansia per quello che potrebbe succedere alle persone a te care (più che a te stesso).
La paura di aver contagiato le persone che più ami al mondo.
La solitudine dell’isolamento.
Senza tralasciare l’abbandono delle istituzioni.
Facendo un’analisi della mia esperienza e di quella delle persone che mi circondano, ho capito che qualcosa nel mio comune deve essere andato “storto”. Nella cosiddetta “prima ondata” quei pochi che hanno contratto il virus hanno raccontato di essere stati seguiti e di aver sentito la vicinanza delle istituzioni. Nella “seconda ondata” c’è stato qualche intoppo, non si è ancora capito bene dove e a che livello istituzionale. Da parte di chi c’è stata la mancanza?
Non ho ricevuto alcuna ordinanza di inizio quarantena. In realtà e in tutta coscienza, non ho mai sentito di aver bisogno di un’ordinanza per restare a casa e in isolamento. Basti pensare al fatto che al primo accenno di mal di gola, quando ancora non avevo neppure il minimo sospetto che potessi aver contratto il Covid-19, mi sono messa in auto-quarantena.
Allo stesso modo non ho ricevuto alcuna ordinanza di fine quarantena. Quando mi hanno chiamata dall’ASL per avvisarmi della negatività al tampone, ho deciso comunque di mantenere alta l’attenzione e di non uscire di casa per qualche altro giorno (eccesso di zelo, nient’altro).
La mancanza, forse, più grave riguarda la gestione dei rifiuti. Non ho saputo quando e in che modalità avrebbero raccolto la spazzatura fin quando un giovedì mattina poco dopo le 8, dopo oltre 2 settimane di isolamento, un operatore ecologico si è presentato alla mia porta domandandomi con tono seccato “Avete spazzatura o no?!”.
Il medico dell’ASL, nel corso della nostra prima telefonata, mi aveva spiegato che avrei dovuto raccogliere tutta la spazzatura in due sacchi neri (messi uno nell’altro) senza differenziarla e che poi avrei ricevuto un’altra telefonata (da chi di dovere) per essere informata su giorni, orari e modalità di raccolta della spazzatura.
“Ci saranno troppi casi da monitorare”, mi dicevo cercando una giustificazione alla mancanza subita. Eppure il nostro sindaco ogni venerdì sera ci aggiornava in diretta televisiva sull’andamento dei contagi, tranquillizzando i concittadini circa le condizioni dell’epidemia sostenendo che la situazione fosse sotto controllo.
Ma allora perché chi doveva telefonarmi non l’ha fatto?
Si sono dimenticati di me?
Come possono pensare che una persona possa raccogliere tutta la sua spazzatura e tenerla dentro casa per oltre due settimane? Perché questo è quello che avrei dovuto fare se non avessi avuto spazio sufficiente fuori casa.
Non punto il dito contro una persona in particolare, ma contro un sistema che non funziona e che ti abbandona.
Difficili da spiegare sono anche i sentimenti che si provano subito dopo il Covid, quando il medico dell’ASL ti chiama e ti dice “Sei negativa! Sei finalmente libera! Puoi uscire”. Nel mio caso, una gioia a metà. Una gioia spezzata dalla paura e dall’angoscia, ancora, per le persone che ti sono accanto e che ancora combattono contro il virus.
Sono passati, ormai, circa due mesi, eppure sembrano anni. Sono andata avanti con la mia vita e sono riuscita a sposarmi, dopo mesi di rimandi.
Un nuovo anno è finalmente iniziato e ha portato con sé tante speranze.
Ora mi ritrovo a pensare alla mia vita. Alle persone che mi circondano. Alle persone che mi hanno aiutata, a quelle che hanno aiutato i miei cari.
Ma penso anche a chi non c’è stato. Ancora una volta capisco che non si finisce mai di conoscere le persone e imparo a dare il giusto peso ad ognuna di loro.
Affronto la delusione e la supero velocemente, lasciando spazio nel mio animo ad un altro sentimento: quello della gratitudine.
Gratitudine per le persone che sono e sono state presenti.
Gratitudine per essere guarita.
Gratitudine per essere guariti tutti!
Veronica Gatta